Diario della crisi, Parte 6 – E adesso?
A cosa serve questo “assegno”? i 700 miliardi di dollari sono destinati a un fondo pubblico che dovrebbe comprare dalle banche tutti i “toxic asset”, gli strumenti finanziari che hanno avvelenato i loro bilanci. La prima funzione della decisione del governo di compare questi titoli è quella di rimuovere questo cancro che sta uccidendo il sistema bancario americano. La seconda funzione è di fare in modo che le banche ricomincino a fare circolare il credito invece di ammassare quel poco che hanno. La speranza è che una volta i bilanci sono stati ripuliti, la fiducia nel mercato bancario possa essere ripristinata, e le banche possano riprendere a prestare soldi normalmente. In altre parole, ripulendo il virus l’occlusione che blocca le vene dovrebbe essere sciolta e il sangue potrebbe scorrere normalmente. La terza funzione è quella di "creare" un prezzo per questi titoli tossici. In un'economia di mercato il prezzo viene definito dall'incontro tra la domanda (chi vuole comprare quel bene) e l'offerta (chi vuole vendere quel bene). Ma in questi mesi la domanda di mortgage-backed securities è scomparta, ed è diventato difficilissimo, quasi impossibile, capire quanto questi titoli valgano in realtà. Il prezzo dei mortgage-backed security ora è così basso a causa del panico dei mercati da essere irrealistico. In teoria, il governo potrebbe perfino guadagnare da questo intervento, quanto meno tra qualche anno.Fra qualche anno, quando il declino dei prezzi delle case finirà, il prezzo di quei titoli salirà a livelli più realistici. Il problema è che le banche attualmente sono troppo fragili e non possono permettersi di tenere questi titoli nei loro bilanci per qualche anno, non possono tenere il veleno per così lungo in corpo. Il governo invece forse aspettare che la fiducia torni nei mercati, e vendere questi strumenti finanziari a un prezzo più alto in futuro.
Ma le probabilità che il piano funzioni non sono chiare. Che strumenti finanziari verranno comprati? E soprattutto: a che prezzo? Se il prezzo è troppo basso, le banche non vorranno disfarsi di questi toxic assets. Se il prezzo è troppo alto, ci sarebbe una reazione del paese, che vedrebbe il tutto come un esempio di “socialismo per le banche”. In queste ore il Congresso Americano sta discutendo se dare il via libera a questo piano. La crisi non potrebbe arrivare a un momento peggiore. Fra due mesi ci saranno le elezioni, e oltre al presidente, si voterà anche per rieleggere quasi metà dei parlamentari. Non facile per un senatore dell’Ohio spiegare ai propri elettori (che in molti casi pensano che i loro posti di lavori sono rubati dalla Cina) che una somma di tale entità del bilancio dello stato viene usata per salvare il sistema finanziario piuttosto che per sussidi di disoccupazione, assicurazione sanitaria o finanziare una istruzione migliore. Per questo Bush è intervenuto stasera. Per dire alla nazione: è un’emergenza! Bisogna fare qualcosa ora. Per dare un capro espiatorio ai Congressmen, e favorire l’approvazione del piano.
Quello che è sicuro è che la crisi ha già cambiato per sempre tre aspetti del sistema finanziario americano. Il primo è la fisionomia di Wall Street. Delle 5 investment bank (banche che non accettano depositi) che esistevano un anno fa, due sono fallite, una è stata assorbita, e due si sono tramutate in banche centrali. L’epoca dei livelli astronomici di indebitamento del sistema bancario è finita per un periodo che potrebbe essere molto lungo.
La seconda cosa che è cambiata è il rapporto tra Wall Street e la politica. Gli ultimi 2 decenni sono stati anni di deregolamentazione dei mercati finanziari, in cui un parte sempre più rilevante dei mercati si è sviluppata al di fuori del business tradizionale delle banche, cioè prestare denaro. Una logica inevitabile nella regolamentazione dei mercati afferma che non appena le tasse dei cittadini sono usate per salvare degli istituti finanziari, in quel momento cominciano a moltiplicarsi le voci in favore della creazione di misure più stringenti. La stessa cosa succederà adesso. Il rapporto tra la politica e i mercati procede come un pendolo. La fiducia nella capacità del mercato di autoregolamentarsi è stato un fondamento delle politiche degli ultimi anni, che descrivevano l’intervento statale come un’interferenza controproducente. Non è la prima volta. Prima della crisi del 1929 l’intervento dei governi nella regolamentazione dei mercati finanziari era minimo. Ma le crisi finanziarie mostrano come le fondamenta di ogni mercato siano “politiche” e nessun mercato può funzionare senza le adeguate istituzioni e scelte politiche. Visto che la politica è dovuta entrare in soccorso della finanza fino a un punto che non si era visto dagli anni ’30 solleva il dubbio che – come è successo dopo il 1929 – il pendolo potrebbe tornare indietro verso un maggiore controllo da parte di agenzie governative sui mercati.
Il terzo aspetto del sistema finanziario americano ad essere cambiato è il suo rapporto con il resto del mondo. La crisi è stata fino ad’ora una crisi “americana”, non globale. Molte banche europee non sono messe molto meglio che le banche americane, ma sicuramente la situazione in Europa non è d’emergenza come dall’altra parte dell’Atlantico. Una grande sorpresa di questi mesi è stato quanto poco paesi al di fuori degli Stati Uniti e Europa abbiano risentito della crisi. Si dice che quando gli Stati Uniti starnutiscono, il resto del mondo prenda il raffreddore. Non è stato vero nel caso dei mercati finanziari in paesi come la Cina, che secondo il pensiero di molti fino ad un anno fa rappresentava il punto in cui una nuova crisi sarebbe potuta scoppiare dopo quella Asiatica del 1997-98. Non sto escludendo che questi paesi non ne risentiranno, specialmente una volta che l’economia americana rallenterà e comincerà a comprare meno prodotti cinesi e dal resto del mondo. Ma sicuramente quello che ne ha risentito è la reputazione del capitalismo americano a Pechino, a Rio de Janeiro, a Seoul, a Bangkok.