Pechino Vol.7 - L'umiltà di non capire
All’interno di queste domande, rimangono dodici giorni bellissimi, rimangono le corse in taxi nella notte di Pechino, rimangono i volti bellissimi degli anziani e dei bambini, rimangono le foto fatte con le scolaresche cinesi che ti fermano in piazza Tienanmen, rimane lo spettacolo meraviglioso di M. che contratta mezz’ora con una ragazzina cinese per riuscire a strappare ogni Yuan possibile dal prezzo di quegli stivali, rimangono delle cene memorabili, rimane lo stupore nel cogliere la varietà di popolazioni, etnie, e visi costituiscano la Cina, e come questi si mescolino in un “mostro” come Pechino. Rimane la frustrazione per non avere una chiave di lettura. E il pensiero che per capire Pechino, per capire la Cina serva prima di tutto l’umiltà. L’umiltà di venire fin qui e dedicare almeno uno o più anni interi per imparare la lingua. Una lingua che come dice M. non si impara ma si metabolizza. Le nostre categorie cognitive, schemi mentali, e capacità di ragionare sono mediati dalla nostra lingua. Capire la Cina richiede l’umiltà di lasciare che una lingua con un alfabeto e una struttura completamente opposti al nostro, influenzino ciò che considero tra le cose più preziose, la nostra capacità di pensare. Capire Pechino richiede l’umiltà di guardare ai suoi cittadini mettendo da parte il nostro Euro-centrismo, e il nostro senso di superiorità che ci portiamo dietro. Capire Pechino richiede l’umiltà di “sospendere il giudizio”, come mi dice Luca. Accettare che i nostri occhi, il nostro passato, la nostra lingua, e i nostri valori non ci permettono di capire totalmente, senza distorcere o banalizzare. Capire Pechino richiede l'umiltà di non capire. Per questo motivo ho capito che non potrei mai vivere in questa città. Il fascino della vita dell’Occidentale in Oriente si scontrerebbe contro l’incapacità di capire la realtà in cui si vive senza aver prima rinunciato a molte delle nostre convinzioni. Significherebbe accettare che sia la città e la sua cultura a plasmarci. Ma ho tantissima ammirazione per chi prova a farlo, e come un bambino sui banchi di scuola, passa ore a re-imparare a parlare, e mette in fila ideogrammi, uno dopo l’altro in fila su un quaderno.
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