Diario della crisi, Parte 7 – 228 contro 205
Lunedì 29 Settembre. 228 voti contrari. 205 favorevoli. Il Congresso degli Stati Uniti ha negato l’approvazione del piano presentato dal Tesoro americano e dal suo segretario Hank Paulson. Nonostante il supporto alla proposta da parte di Bush, Obama, McCain, la maggior parte dei deputati ha ben capito che votare si a un piano così impopolare avrebbe minato la loro possibilità di essere rieletti nelle elezioni che si terranno fra poco più di un mese. L’opposizione non è stata puramente strategica, ma anche ideologica. Gresham Barrett, deputato Repubblicano eletto in South Carolina ha dichiarato all’uscita dell’aula: “La mia paura è che oggi il governo cambierà per sempre l’aspetto del libero mercato negli Stati Uniti. Poiché credo profondamente nei principi del libero mercato, e credo nella libertà, mi opporrò a questa legge”. Tra deputati che hanno pensato alla loro rielezione, e deputati che realmente credono nella pericolosità di un’iniziativa del genere, gli Stati Uniti hanno deciso che “vale la pena rischiare una Depressione”, come ha criticato Martin Wolf. La scelta della parola non è casuale. E’ un chiaro riferimento alla Grande Depressione che fu innescata dal crollo di Wall Street nel 1929. Anche in quel caso, il tentativo di proteggere gli interessi economici nazionali portò all’approvazione dello Smooth-Hawley Tariff Act, all’innalzamento delle barriere doganali su ventimila prodotti, e alla diffusione della depressione in tutti i continenti. Non che il parallelo storico regga. Ma esiste chiaramente una tensione. Quello che gli Stati Uniti e il Congresso reputeranno essere la soluzione ottimale per i propri cittadini, non lo sarà necessariamente per il resto del mondo.
Fino a pochi giorni fa ero sinceramente contento della crisi finanziaria. A un seminario che ho contribuito ad organizzare questo fine settimana proprio sul tema della crisi finanziaria attuale, un professore si è rivolto agli altri partecipanti dicendo: “Noi siamo quelli che beneficiano di più da tutto ciò. Abbiamo di fronte un esperimento naturale”. La metafora funziona. A differenza di fisici, chimici, o biologi, chi si occupa di scienze sociali non può permettersi il lusso di ricreare in laboratorio esperimenti per testare le proprie ipotesi. A volte la realtà involontariamente crea le condizioni. Per me questo è uno di quegli esperimenti naturali. E a differenza di quel professore, io non ho risparmi che stanno venendo depredati in borsa, ne’ sono proprietario di una casa che sta perdendo valore. Ma se fino a ieri, la crisi era per me una grande opportunità, e una curiosità intellettuale, da oggi comincio ad essere più preoccupato.
Tre sono i possibili scenari che mi fanno preoccupare. La prima è che la spirale peggiori all’interno di Wall Street, passando dalle banche ad altre istituzioni finanziarie. Il punto centrale per capire la fragilità del sistema è il ruolo che l’indebitamento (leverage) gioca nel sistema bancario. Le banche normalmente accettano depositi dai propri clienti, e prestano quei soldi ad aziende e persone che richiedono un prestito. Queste attività rappresentano solo una parte marginale dei profitti che Wall Street registra. Negli ultimi due decenni Wall Street è passata dal “accettare depositi e prestare soldi” a concentrarsi su un’insieme di attività diverse, come investire e speculare sui mercati in cerca di profitti, comprare mutui fatti alle famiglie da piccole banche locali e re-impacchettarli in mortgage-backed Securities e collateralized-debt obligations, prestare soldi a fondi di investimento speculativi, finanziare fusioni tra aziende. Ora, per finanziare queste attività, le istituzioni finanziarie sono diventate altamente indebitate, in molti casi più di venti volte la loro base di capitale. L’indebitamento è centrale a come questi istituti operano. L’indebitamento è la cocaina dei mercati finanziari. In parte questo è comune a ogni banca. Anche la cassa di risparmio all’angolo di casa vostra è indebitata. Ma indebitata nei vostri confronti, o nei confronti dei propri clienti che depositavano i loro soldi. Wall Street è invece altamente indebitata nei confronti dei mercati finanziari, prendendo a prestito soldi per periodi brevi, spesso dovendo ripagare dopo un mese, in certi casi prendendo prestiti “overnight”, da ripagare il giorno dopo. La crisi del credito attuale ha minato proprio la capacità delle banche di ri-finanziare il proprio debito raccogliendo nuovi capitali sui mercati. Questi capitali non esistono più, togliendo ossigeno alle banche. Inoltre, una serie di istituti finanziari che quotidianamente prendono in prestito soldi dai mercati (tipo hedge funds) cominciano a soffrire della stessa mancanza di ossigeno. Man mano che la liquidità diventa merce rara sui mercati, diventa sempre più difficile che tutti questi istituti possano continuare ad operare.
Il secondo scenario che mi preoccupa è la possibilità che la crisi si espanda fino a causare la caduta di istituti finanziari in Europa. Da ieri mattina, questa non è una possibilità, ma una realtà. In Inghilterra, il governo ha nazionalizzato una banca chiamata Bradford & Bingley. In Germania, la banca centrale salvato un'altra banca chiamata Hypo Real Estate attraverso un prestito d’emergenza. Belgio, Olanda e Lussemburgo hanno unito le forze per salvare Fortis. In tutta Europa, le banche maggiori hanno registrato significanti perdite in borsa, concentrate non a sorpresa in quegli istituti finanziari che fanno maggiore affidamento giorno per giorno sui mercati finanziari per raccogliere il credito che permette loro di andare avanti.
L’Unione Europea, Francia e Germania hanno abbandonato la posizione distaccata e passiva tenuta per più di un anno, e hanno cominciato ad alzare la voce. Ma è un ruggito destinato ad impressionare più il proprio elettorato che ad influenzare veramente gli Stati Uniti. L’Unione Europea ha sottolineato come si trovi vittima di una crisi che non ha contribuito ad originale, visto che l’origine della crisi è totalmente interna agli Stati Uniti. Un portavoce della Commissione ha dichiarato che “la Commissione si aspetta che le autorità statunitensi vadano avanti presto con le decisioni che erano state prese e si assumano così le loro responsabilità”. Peer Steinbruck, ministro delle finanze tedesco, ha rilasciato una dichiarazione che ha fatto molto clamore, quando ha detto: “quando guarderemo indietro a tutto questo fra 10 anni, vedremo il 2008 come un momento di cambiamento radicale. Quando cioè gli Stati Uniti perderanno il loro ruolo di superpotenza finanziaria”. Negli ultimi 15 anni, accademici, esperti di finanza e politici hanno esaltato il modello anglo-americano nei mercati finanziari come più dinamico, innovatore, e maggiormente in grado di creare le basi per un’economia in grado di competere nel ventunesimo secolo. In molti sono ora già passati a tessere le lodi del “modello europeo” dei mercati finanziari. Ma dietro le dichiarazioni che vengono da Bruxelles vi è un palazzo che scricchiola in quanto non è mai stato finito di costruire. L’integrazione monetaria e la creazione dell’Euro ha portato la maggior parte dei membri dell’Unione Europea a delegare la responsabilità sul controllo della propria moneta a un organismo sovranazionale. Ma nessuna soluzione simile è emersa per contenere crisi finanziarie. La Banca Centrale Europea non ha alcun potere di salvare una banca europea sull’orlo del fallimento, come può invece fare la Federal Reserve americana. Non esistono normative o istituzioni che permettano di gestire queste situazioni d’emergenza. Molti in Europa guardono alle loro banche indebolite dalla crisi e si chiedono cosa succederebbe se una di queste cadesse.
Nel caso una banca europea che opera in più paesi entrasse in difficoltà, ogni risposta d’emergenza dovrebbe essere coordinata al momento tra governi nazionali. Il problema è che certe banche in Europa hanno raggiunto una dimensione tale da offuscare le risorse a disposizione degli stati in cui hanno sede. Le dimensioni di Fortis oscurano la ricchezza prodotta in un anno dal Belgio intero. La stessa cosa vale per molte banche islandesi e svizzere. HSBC è un gigante di tali dimensioni da oscurare la ricchezza prodotta ogni anno dal paese in cui a siede: la Gran Bretagna.
La diplomazia in Europa si comincia a muovere per prevenire l’impensabile. L’Olanda e Francia hanno proposto la creazione di un fondo di 300 miliardi di euro da usare nel caso una grande banca europea entrasse in difficoltà. La proposta è stata affossata dall’opposizione della Germania. Nel frattempo il governo irlandese ha unilateralmente offerto una garanzia totale su tutti i depositi in banche irlandesi, provocando una fuga di capitali dalle banche inglesi che non godono di questa protezione totale da parte del governo. Questi due eventi mostrano un paio di paradossi. Primo, coordinare una risposta tra 27 membri dell’UE potrebbe essere troppo difficile e lento per fronteggiare un’emergenza. Allo stesso tempo gli stati europei non possono permettersi di agire unilateralmente in quanto questo costituirebbe una minaccia alle regole base del mercato unico. Neelie Kroes, commissario europeo alla concorrenza, ha commentato avanzando un parallelo con gli anni ’30. “Quando l’Europa si trovò di fronte a una crisi bancaria negli anni ’30, i governi decisero di agire autonomamente, di ritirarsi dai mercati europei, e di chiudersi dietro i loro confini. … Il Protezionismo non era la soluzione in quel momento. Non facciamo lo stesso errore una seconda volta”.
MA questo mostra un secondo paradosso. Agire in modo preventivo per evitare il collasso di un gruppo bancario è politicamente difficile perché nessuno può permettersi di firmare un assegno di varie centinaia di miliardi in modo “preventivo”. Farlo dopo il collasso della banca è inutile. I limiti della politica impongono che ogni soluzione sarà disegnata al momento, quando il terreno sta per franando, e nessuna direttiva europea o legge nazionale è così importante da non poter essere sacrificata.
Il terzo aspetto della crisi che mi lascia preoccupato è il fatto che ormai i suoi effetti sull’economia reale sono una certezza. General Electrics è stata per decenni considerata una garanzia, ma pochi giorni fa ha dovuto finanziarsi, cercando nei mercati finanziari quindici miliardi di dollari in modo da allontanare lo scetticismo sul suo stato di salute finanziaria. Il credito scarseggia, e la mancanza di ossigeno comincia arrivare anche alle aziende. Molti indicatori economici mostrano che l’economia americana e quella europea hanno rallentato.
Nel frattempo, io me ne sto al sicuro, protetto da 4000 km di confine canadese. Durante la Depressione degli anni ’30, negli Stati Uniti fallirono 11.000 banche. In Canada, il numerò fu zero.
Venerdì 3 Ottobre. La camera dei deputati americana ha approvato il decreto che autorizza l'utilizzo di 700 miliardi di soldi dei cittadini per comprare titoli tossici dai libri contabili delle banche. Nel frattempo il testo di 3 pagine si è gonfiato fino a 400 pagine. I 700 miliardi sono diventati 850, data l'aggiunta di sgravi fiscali e nuove spese. Tra i vari articoli aggiunti per ottenere il supporto dei vari senatori e deputati riluttanti vi è l'introduzione di sgravi fiscali per le ditte che producono freccie giocattolo per bambini e un cambio nella normativa sulle assicurazioni sanitarie nel caso delle malattie mentali. Non penso sia una coincidenza. E nonostate il piano sia passato, le possibilità che abbia successo mi sembrano ora estremamente ridotte.
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