giovedì, settembre 25, 2008

Diario della crisi, Parte 2 – La tempesta perfetta

Diario della crisi, Parte 2 – “Mi sento in po’ in crisi”
Mi spiego. Ero arrivato in Canada poco più di un anno fa, spinto dalla motivazione di passare i successivi 4 anni della mia vita studiando, imparando, facendo ricerca, e magari pubblicando articoli su temi di finanza internazionale. Il motivo per venire proprio qui a Waterloo era la presenza di un professore esperto nel campo con cui avrei voluto lavorare e da cui avrei voluto imparare. Cosa c’entro io con temi di Finanza internazionale. Poco nulla. Quanto meno a vedere dal mio conto in banca (sono l’unica persona al mondo ad avere 3 conti in banca in 3 paesi diversi, tutti tendenti allo zero sul saldo finale). Ma quello che mi aveva affascinato dell’argomento era la contraddizione tra la potenza e la fragilità del sistema finanziario internazionale. Potenza data dalla difficoltà solamente di immaginare che ogni giorno più di tre trillioni di dollari (tremila miliardi di dollari) passino di mano nell’unico mercato al mondo che sia veramente globalizzato, e dove le barriere fisiche e temporali non contano. In un mondo frammentato in confini e barriere nazionali, mercati finanziari che operano in tempo reale 24 ore su 24 rappresentavano una sfida alla nostra capacità di immaginare lo spazio e il tempo. Il secondo aspetto che affascinava intellettualmente della finanza internazionale era fragilità innata. Nonostante, i mercati finanziari siano un velo invisibile sopra l’economia reale (quella delle aziende, negozi che vendono tutto ciò che possa cadervi su un piede), a scadenze più o meno regolari tendono ad entrare in cortocircuito. Sono il sistema di vene e arteria che porta il sangue agli organi. MA quando il sangue rallenta la circolazione, e viene contaminato, gli organi ne soffrono. Gli organi sono l’economia “reale”, il tuo posto di lavoro e il tuo stile di vita.
L’ultimo cortocircuito, quello che mi aveva avvicinato a questo argomento, è avvenuto dieci anni fa nella parte opposta del globo. Nel 1997 una crisi finanziaria colpisce quattro paesi nell’Asia sud-orientale: Indonesia, Malesia, Corea del Sud e Tailandia. Le loro valute perdono qualsiasi valore in un tempo breve, il sistema bancario collassa, e la chiusura delle banche mette in crisi le aziende e l’economia reale. In Indonesia la crisi provoca la fine della dittatura di Suharto. Ma allo stesso tempo anche 36 milioni di persone vengono spinte sotto la soglia di povertà in quel paese. La crisi ha un riverbero mondiale. Meno di un anno dopo il governo russo smette di ripagare i debitori. L’effetto contagio colpisce prima il Brasile, e poi Wall Street, dove un gruppo di banche deve salvare un LTCM, un hedge fund (un fondo d’investimento poco regolato e poco trasparente) che annoverava tra i suoi membri due premi Nobel per l’economia, e aveva nei propri libri contabili 120 miliardi di dollari in investimenti.
L’onda lunga che dall’Asia arrivò agli Stati Uniti ha generato un dibattito infinito e affascinante, nelle stanze di banche centrali, ministeri delle finanze, così come nelle università. Quali sono le cause dell’instabilità dei mercati finanziari? Come prevenire una nuova crisi? Come governi nazionali la cui giurisdizione è limitata dai loro confini territoriali possono governare qualcosa che non conosce confini? Parte degli accademici e i governanti dei paesi colpiti dalla crisi denunciavano la naturale instabilità e irrazionalità dei mercati finanziari e proponevano la reintroduzione di qualche forma di controllo sui movimenti di capitale, granelli di sabbia che rallentassero il funzionamento dei marcati finanziari, e che frenassero la capacità del capitale finanziario di attraversare i confini. La risposta dei governi occidentali fu invece che la colpa non era nella instabilità dei mercati, ma nelle politiche dei paesi colpiti della crisi, nei rapporti incestuosi che legavano le banche, le aziende e il governo in Asia Orientale, nella scelta di liberalizzare i propri mercati troppo in fretta senza aver prima passato legislazioni simili a quelle occidentali che garantissero il funzionamento dei mercati. Lo shock è stato tale che il dibattito è proseguito per un decennio. C’era una premessa che faceva da fondamento all’intero dibattito: il rischio da cui dobbiamo guardarci le spalle è che una nuova crisi emerga in un paese in via di sviluppo, e che possa propagarsi fino a noi visto il livello di interconnessione che i mercati di tutto il mondo hanno sviluppato. La proposta di ricerca con cui ero stato ammesso al dottorato in Canada si inseriva in questo dibattito e guardava al rapporto tra la Bank of International Settlement (un’organizzazione internazionale nel campo bancario) e paesi emergenti (vedi Cina) che non figurano tra i suoi membri.
Gli stessi governi che fanno parte del G7 e che per dieci anni avevano agito partendo dalla premessa che una nuova crisi non sarebbe scoppiata nel loro cortile. Invece questo è proprio quello che è successo. Dopo 6 anni di stabilità (l’ultima crisi rilevante è stata quella Argentina, nel dicembre 2001), una nuova crisi finanziaria è scoppiata nel 2007, ed è scoppiata dove non era attesa. Negli Stati Uniti. Nel centro della finanza mondiale.
Quando sono arrivato in Canada a settembre 2007, i primi tremori comparivano sulle pagine interne dei quotidiani, per spostarsi fino alle prime pagine. Poi le scosse alla stabilità del sistema finanziario americano si sono moltiplicate. Fino ad arrivare alla chiusura di alcune tra le maggiori banche americane la settimana scorsa, e alla nazionalizzazione della più grande ditta di assicurazioni al mondo (AIG). Quello che volevo ricercare sembrava ad un tratto di secondaria importanza di fronte agli eventi che si accavallavano. Verso gennaio 2008 ho deciso di gettare all’ortiche il progetto di ricerca che avevo coltivato per più di un anno e tutte le mie idee, per dedicarmi in futuro unicamente a questa crisi. Un’idea precisa di cosa avrei fatto non l’avevo, e ancora non ce l’ho, ma la sensazione era che quello che stavo osservando quotidianamente sui giornali avrebbe avuto un impatto per decenni. Come ha dichiarato Alan Greenspan, “uno di quegli eventi che succedono una volta al secolo”. L’ultima volta che è successo qualcosa di tale grandezza era appunto nel secolo scorso. Qualcuno all’inizio ha avanzato paralleli con la crisi delle Savings and Loans, piccoli istituti finanziari che elargivano mutui negli anni ’80 negli Stati Uniti. Il costo finale di quella crisi fu la chiusura di 1600 istituti finanziari e un costo di 120 miliardi per le casse dello stato. Altri hanno avanzato paragoni con lo scoppio della bolla immobiliare in Giappone negli anni ’90. Il costo di quella crisi fu un decennio di stagnazione economica per la seconda potenza economica. Qualcuno ha avanzato paralleli con la crisi del 1929. Il costo di quella crisi fu la distruzione dell’economia mondiale, l’ascesa di movimenti fascisti in tutta Europa, e un capovolgimento del rapporto tra stato e mercato che è durato fino agli anni ’70, con l’avvento di Ronald Reagan, Margaret Tatcher, e nelle politiche neoliberiste. Quello che ora non si ha il coraggio di chiedersi è quale potrebbe essere l’effetto di questa crisi. E’ per allontanare lo spettro di questa domanda che Bush sta chiedendo ai cittadini americani un assegno da 700 miliardi di dollari.

1 Comments:

Blogger Antonio Candeliere said...

Vorrei citare una frase di Henry Ford per non dilungarmi troppo “ E' un bene che il popolo non comprenda il funzionamento del nostro sistema bancario e monetario, perché se accadesse credo che scoppierebbe una rivoluzione prima di domani mattina.“

11:00 AM  

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