Diario della crisi, Parte 8 – Non più solo gli Stati Uniti
Fino a settembre 2007, questa crisi è rimasta una crisi “americana”, con delle ramificazioni pericolose nei bilanci di alcune banche europee che avevano investito nel mercato immobiliare americano. Dal mese di settembre 2007, la crisi è diventata una crisi transatlantica. Diversi paesi europei sono dovuti intervenire a soccorso di istituti bancari nazionali in difficoltà attraverso prestiti d’emergenza, nazionalizzazioni, e garanzie sui depositi.
Dall’inizio di ottobre 2008, questa si è trasformata da una crisi trans-atlantica, a una crisi globale. La valanga di vendite nei mercati azionari americani ed europei hanno trascinato al ribasso i mercati azionari di ogni continente. Dopo Londra, Parigi e Milano, anche Tokyo, Singapore, Sidney, Hong Kong, Bombay, e Mosca hanno registrato perdite spesso nell’ordine del 10% in un singolo giorno. In ottobre 2007, il Fondo Monetario ha ripristinato una procedura d’emergenza creata durante la crisi finanziaria asiatica del 1997-98 per soccorrere paesi in difficoltà. Il Fondo aveva negli ultimi anni quasi cessato la sua attività di concedere fondi di emergenza a paesi in difficoltà finanziaria, visto che la maggior parte dei paesi in via di sviluppo avevano beneficiato della stabilità nei mercati internazionali e gli alti prezzi delle materie. Questa situazione di calma sui mercati internazionali è chiaramente giunta a termine, e cresce la possibilità che paesi in America Latina, Europa orientale o Asia orientale debbano ricorrere a prestiti di emergenza per proteggersi da una crisi che non hanno minimamente contribuito a creare. I rischi sono minori per quei paesi in Asia orientale e Medio Oriente che nell’ultimo decennio hanno accumulato centinaia di miliardi di dollari in valuta e titoli esteri per difendersi da possibili attacchi speculativi provenienti dai mercati finanziari. Ma queste montagne di dollari potrebbero rivelarsi una barriera Maginot, incapace di prevenire che la crisi si faccia sentire attraverso canali diversi, come il calo nella domanda per loro esportazioni determinata dalla recessione negli Stati Uniti e in altri paesi.
Nel contesto di questa crisi, la Cina è sembrata fino a questo punto un attore periferico. Per vari anni il sistema bancario cinese è stato additato come uno degli anelli deboli, e il possibile punto di origine di una nuova crisi finanziaria internazionale. Contrariamente a queste previsioni, fino a questo momento i 1800 miliardi di dollari in riserve monetarie possedute dalla Banca centrale cinese e la relativa semplicità delle banche cinesi, non esposte ad attività ad alto rischio come quelle americane, hanno costituito una barriera protettiva sufficiente contro il diffondersi della crisi finanziaria.
Ma la crisi coinvolge il paese molto più profondamente, fino a mettere in discussione la sua posizione nel panorama internazionale. Esiste infatti un paradosso tra il bisogno assoluto di denaro per ricapitalizzare gli istituti finanziari negli Stati Uniti e in Europa, e i 4000 miliardi di dollari che giacciono come riserva nelle banche centrali nell’Asia Orientale. Per questo sono in molti a vedere la Cina, assieme ad altri paesi asiatici, come la potenziale soluzione della crisi.
La decisione da parte del governo di accumulare titoli del tesoro americano negli ultimi anni è stata definita da Ken Rogoff, in passato chief economist del Fondo Monetario Internazionale, come “il più grande programma di aiuti economici nella storia”. Altri economisti come Arvind Subramanian del Peterson Institute for International Economics hanno suggerito che la Cina dovrebbe fare un passo in più, investendo parte delle proprie riserve monetarie per ricapitalizzare Wall Street. Secondo Subramanian, tre sono le motivazioni. Primo, perché come vari commentatori sostengono all’interno degli Stati Uniti, la Cina ha indirettamente favorito l’emergere della bolla speculativa, attraverso la svalutazione competitiva della propria valuta, che ha inondato di liquidità i mercati americani. Secondo, perché attenuando l’entità della recessione negli Stati Uniti, la Cina preverrebbe un drammatico calo nella domanda delle sue esportazioni, e agirebbe quindi nel proprio interesse. Terzo, perché in questo modo dimostrerebbe al mondo intero il suo status di superpotenza responsabile, capace di usare le proprie risorse economiche per proteggere l’economia. In altre parole, sigillerebbe il passaggio dal “secolo americano” al “secolo cinese” arrivando in soccorso dell’attuale potenza egemone in difficoltà.
Proposte come queste sono più una provocazione intellettuale che una reale possibilità. Il primo ad opporre l’ingresso massiccio cinese o di qualsiasi altro paese nel sistema bancario americano sarebbe lo stesso Congresso americano. Inoltre, già una volta dall’inizio della crisi, il governo cinese è intervenuto in soccorso di Wall Street. A dicembre 2007, la China Investment Corporation - lo strumento usato dal governo cinese per investire sui mercati esteri 200 miliardi di dollari delle proprie riserve monetarie – ha acquistato una quota pari al 10% della banca americana Morgan Stanley. Il successivo aggravarsi della crisi ha causato un crollo nelle azioni della banca che hanno perso il 90% del loro valore e ha reso l’investimento fallimentare dal punto di vista economico. Questo ha alimentato il risentimento a Pechino, che da allora non è più venuta in soccorso d’istituti finanziari americani.
Ma quello che rende improbabile il soccorso cinese o di qualsiasi altro paese asiatico non sono solo considerazioni di natura puramente economica, ma anche la profonda crisi di legittimità in cui l’attuale turbolenza nei mercati finanziari ha gettato il capitalismo americano. Da tutto il mondo si levano dichiarazioni di frustrazione nei confronti degli Stati Uniti per avere gettato altri paesi in una crisi che non hanno contribuito ad originare. Il presidente brasiliano Lula ha dichiarato, “non è giusto che siano paesi in America Latina, Africa, e Asia a pagare per l’irresponsabilità del sistema finanziario americano”. Pochi giorni dopo Putin ha dichiarato, “questa crisi non è il frutto dell’irresponsabilità di specifici individui ma dell’irresponsabilità dell’intero sistema che rivendicava la leadership internazionale”. Ma aldilà della retorica, è chiaro che questa crisi segna un punto di svolta nella struttura della finanza internazionale. Negli ultimi 15 anni, accademici, esperti di finanza e politici hanno esaltato il modello anglo-americano nei mercati finanziari come il più dinamico, innovatore, e in grado di creare le basi per un’economia in grado di competere nel ventunesimo secolo. La risposta del G7 e delle maggiori organizzazioni finanziarie internazionali alle crisi finanziarie generate in paesi in via di sviluppo nello scorso decennio è stata quella di promuovere l’adozione in questi paesi di standard e codici finanziari in aeree diverse come la supervisione e regolamentazione bancaria, contabilità, governance aziendale. Nonostante questi standard siano state presentati dal G7 come “best practices”, agli occhi dei politici nei paesi dell’Asia orientale questi sono sembrati un’eccessiva interferenza nelle loro economie, e il tentativo di Washington di rimodellare i sistemi finanziari asiatici a propria immagine e somiglianza. A partire dalla crisi che ha colpito Tailandia, Indonesia, Malesia, e Corea del Sud nel 1997-98, la reazione prevalente nella regione a è stata quella di rafforzare la propria autonomia, attraverso l’accumulazione di montagne di dollari come protezione contro future turbolenze nei mercati finanziari, o rafforzando la cooperazione a livello regionale. La proposta giapponese di creare un “Fondo Monetario Asiatico” nel 1997 fallì per l’opposizione congiunta di Washington e Pechino. Mentre gli Stati Uniti temevano che questa organizzazione potesse rappresentare una sfida al Fondo Monetario Internazionale e diminuisse l’influenza americana nella regione, la Cina vide l’iniziativa come un tentativo di Tokyo di rafforzare la propria leadership. Ma dal fallimento del Fondo Monetario Asiatico, nuove iniziative hanno rilanciato la cooperazione regionale. La Chiang Mai Initiative rappresenta una serie di accordi tra le banche centrali dei paesi che formano l’Asean+3, i quali hanno creato delle linee di credito per supportarsi reciprocamente nel caso una crisi finanziaria colpisse la regione. La crisi attuale ha visto il rafforzamento di questa iniziativa, ora in grado di mobilitare 80 miliardi di dollari, e a differenza di un decennio fa, la Cina ne è ora un’attiva sostenitrice. La dichiarazione d’indipendenza da Washington in campo finanziario lanciata nella regione è destinata a prendere vigore nei prossimi anni, sull’onda lunga della crisi di credibilità in cui sono cadute le politiche di liberalizzazione promosse dagli Stati Uniti in Asia.
Sono in molti a chiedere che questa crisi rappresenti l’occasione per un nuovo inizio nel sistema finanziario internazionale attraverso una nuova Bretton Woods. La conferenza di Bretton Woods nel 1944 gettò le basi per la ricostruzione del sistema monetario e finanziario internazionale dopo la seconda guerra mondiale e portò alla creazione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca mondiale. Secondo molti commentatori, queste basi vanno ora riviste, e il nuovo ordine deve riconoscere lo spostamento di potere economico internazionale da Occidente a Oriente avvenuto negli ultimi decenni.
Ma le prospettive perché questo accada sono minime. Due condizioni favorirono il successo della conferenza di Bretton Woods nel 1944. La prima fu la leadership degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. La seconda fu una visione comune condivisa dalle elite dell’epoca attorno alle basi sulle quali la finanza internale sarebbe dovuta essere ricostruita. Entrambe queste condizioni mancano in questo momento. La perdita di credibilità del modello anglo-sassone nell’organizzazione dei mercati finanziari rende improbabile che le maggiori potenze economiche continuino a supportare questa visione. Al contrario, è più probabile che l’Europa, la Cina, e altre potenze regionali prendano posizione in favore delle loro tradizioni economiche e ne riaffermino i benefici. Secondo, gli Stati Uniti difficilmente avranno la credibilità e il prestigio morale per esercitare la loro leadership nel campo finanziario. Peer Steinbruck, ministro delle finanze tedesco, ha dichiarato, “quando guarderemo indietro a tutto questo fra 10 anni, vedremo il 2008 come un momento di cambiamento radicale. Quando cioè gli Stati Uniti perderanno il loro ruolo di superpotenza finanziaria”. Al contrario, Pechino potrebbe uscire dalla crisi in una posizione rafforzata. Olivier Blanchard, chief economist del Fondo Monetario Internazionale, ha dichiarato: "I Paesi emergenti cresceranno del 6 per cento l'anno prossimo e ciò avrà implicazioni politiche. Il 100 per cento della crescita nel 2009 viene da loro. Ci sarà uno spostamento nel potere, la Cina emergerà da questi eventi in una posizione più forte".
Mentre le condizioni per una nuova Bretton Woods sono deboli, quello che è più probabile emerga dalla crisi è un sistema frammentato, in cui diversi modelli regionali coesistono e si scontrano, e in cui difficilmente gli Stati Uniti saranno in grado di esercitare la stessa leadership intellettuale ed economica che hanno esercitato negli ultimi decenni. Un sistema in cui Washington non sarà in grado di guidare il resto del mondo, e in cui il resto del mondo sarà restio a seguire. Nonostante questo scenario sia visto in modo favorevole da molti critici di Washington, uno sguardo al passato rievoca il ricordo degli anni ’30 e della disintegrazione dell’economia mondiale in vari blocchi regionali in competizione che seguì il crollo di Wall Street nel 1929.
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