martedì, aprile 07, 2009

Alla fine ho scelto la giacca

Alla fine ho scelto la giacca. Non volevo essere preso troppo seriamente. Non volevo prendermi troppo sul serio. Ma presentarmi in classe semplicemente indossando una felpa con il cappuccio da 15enne (che continuo ad indossare quotidianamente a 24 anni) sarebbe stato forse eccessivo. Cercare attraverso i vestiti la sottile linea che segna il punto di incontro tra il professore autorevole, temuto e ammirato, e il professore finto-giovane e giovinastro. Alla fine mi è sembrato che la giacca e le scarpe da ginnastica rappresentassero un buon compromesso. Ma alla seconda lezione ho abbandonato la giacca ed sono rimaste le scarpe da ginnastica.
Uno dei mille motivi per ho preso una pausa di 5 mesi da blog e’ dovuto al fatto che ho iniziato ad insegnare. Un corso universitario. Non come correttore di esami, o assistente di un professore. Un corso tutto mio. Il modo in cui ho avuto la posizione è attraverso una segnalazione da parte del mio relatore e mi ritrovato con un contratto di quattro mesi che mi definiva “Adjunct Lecturer” (dove Adjunct sta per “temporaneo”, “semestrale”, “precario come foglie d’autunno”) e un corso da disegnare da zero.
Da zero. Panico. Foglio vuoto sulla mia pagina di Word. Cosa devo insegnare? “Più o meno quello che vuoi”, risposta del capo-de-capis del Dipartimento di Scienze Politiche. Risposta mia: “nessun problema”. Di dentro, panico. Cosa vale la pena di essere insegnato? Mi stavano dando un pezzo di responsabilità sulla formazione universitaria di un gruppo di studenti. E se lo avessi sprecato? Qualche giorno su Google a cercare i programmi di corsi simili insegnati in università americane. Poi lentamente rendersi conto che le notizie che si accumulavano ogni giorno sui giornali legati alla crisi finanziaria erano molto più “urgenti” che articoli accademici pubblicati 15 anni fa. In un mondo che si stava contorcendo su se stesso, forse quello valeva la pena di essere spiegato. Ho preso la crisi finanziaria come la chiave per attirare la loro attenzione e ho costruito un corso attorno a temi accademici che vengono in qualche modo toccati dagli spasmi che stanno sconvolgendo i mercati finanziari. La posizione internazionale degli Stati Uniti e il rapporto con la Cina. Il ruolo del dollaro. La fine della globalizzazione finanziaria? Il Fondo Monetario Internazionale. Dopo un paio di mesi, la creatura era nata. Tutta suo padre. Ma il rischio è che piacesse solo al padre. O che fosse troppo facile. O troppo difficile. O troppo noioso. O troppo poco rigoroso. Alla fine penso che la scelta si sia rivelata fortunata. In parte perche’ nelle discussioni in classe potevo fondere la teoria con le migliaia di aneddoti che si raccolgono in questi giorni sui giornali. In parte perche’ e’ stato molto piu’ facile catturare la loro attenzione.
Insegnare è facile. O almeno, insegnare da una cattedra è facile. Basta avere tempo, preparazione, e auto-stima. Tempo per tornare ai libri che non si aprono da anni e capire quale sia il modo più chiaro ed efficace per trasmettere concetti. Preparazione su un certo tema, per riempire la lezione di esempi, casi, aneddoti, interrogativi, che rendano il tema interessante. E autostima, per vendersi alla classe e dare l’impressione che si padroneggi alla perfezione i temi di cui si sta parlando, anche se in verità si sta pattinando su un ghiaccio molto sottile. Questo lo so fare. “L’ho fatto dalla prima superiore”. Stare su un palco e “ “trasmettere” conoscenza, che sia spiegare come si risolve un’integrale o un ripasso generale su Leopardi prima del tema della maturità, non è difficile. Quello che è più difficile è scendere dal palco, e sedersi in cerchio, provando ad insegnare senza dare l’impressione che si sta insegnando. Ho provato a fare entrambi, dividendo le mie tre ore settimanali in due parti. La prima metà in piedi, facendo lezione. La seconda metà seduto attorno a una tavola rotonda. Una discussione con gli studenti. Come immaginavo, sono molto piu’ bravo a pontificare da un pulpito che ad ascoltare e guidare una conversazione.
Il corso è ormai finito e si avvicina il tempo di dare voti. E anche questo genera panico. Non sono sicuro di avere diritto di giudicarli, dare un voto alle loro idee. Alcuni miei studenti sono padri di famiglia, con due figlie e il terzo in arrivo. Altri stanno per abbandonare l’universita’ e cercare un lavoro. E se i miei voti avessero un effetto sulle loro possibilita’ di trovarne uno? Soprattutto, dopo 18 anni da studente, tra elementari, medie, superiori, e universita’, mi sono reso subito conto di quanto i voti siano assolutamente arbitrari e insignificanti. Mi spiego meglio. E’ facile identificare quale studente e’ piu’ sveglio di un altro, quale saggio sia migliore di un altro. Ma assegnare un numero a un insieme di idee e’ completamente arbitrario. 27 o 30 (in Italia)? 75 o 80 (in Canada)?
E ora che ho finito il corso, sono sicuro di aver imparato piu’ di quanto abbiano imparato gli studenti. Imparato nel discutere con loro e leggere i loro scritti. Imparato nel preparare le lezioni. Nell’andare a rispulciare appunti presi piu’ di due anni fa, nuove letture, vecchi libri, e cercare di comunicarli agli studenti. Ma soprattutto ho imparato qualcosa in piu’ dei miei limiti.
Fine del quadrimestre e mi preparo per dare i voti ai loro saggi finali e immagino che loro stiano in pensiero attendendo il mio giudizio. Quello che non sanno e’ che sono io quello in pensiero, attendendo i voti che loro mi hanno dato nella “valutazione del docente” da parte degli studenti a cui sono stato sottoposto a fine corso.

2 Comments:

Blogger Chiara said...

Bentornato Stefano ! Aspettiamo la valutazione allora !

11:02 AM  
Blogger Niccolò said...

meraviglioso. con la stessa passione e meticolosità di una gherardi.

10:52 PM  

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