domenica, luglio 27, 2008

Trans-Canada Vol.2 - Omelette in Montreal, Ottawa, Toronto, Waterloo






Montreal - Domenica 27 luglio. 11 e 30 di mattina
Due buone notizie e una cattiva. Cominciamo dalla buona. Dopo quattro ore il treno è ripartito da Edmonston. Il viaggio è stato lungo, 24 ore in totale. Ma la giornata di sole ha reso giustizia alla bellezza di questo paese.24 ore di boschi e radure, pochissime case o segni di una qualsiasi presenza umana. La cattiva notizia è che sul treno ho perso un paio di mutande. La buona notizia è che poi le ho ritrovate. Aspetta. Un'altra cattiva notizia. Ho perso la mia coincidenza per Ottawa. E questa è una buona notizia visto che ho avuto l'occasione di godermi una bellissima domenica mattina di sole a Montreal, scrivendo da un caffè, e attendendo con ansia la mia omelette. Montreal è semplicemente meravigliosa.
Da Montreal, il mio ritorno ad Ovest è proseguito sul treno per Ottawa. Il motivo principale per deviare verso Ottawa è stato prima di tutto quello di ritrovare un amico e compagno di studi, ora alle prese con uno stage nel ministero degli esteri canadesi. Ma ho colto l’occasione di fare un po’ di classico turismo, musei, parlamento, etc…
Uno delle più importanti massime canadesi afferma che la parte migliore di Ottawa è l’imbocco dell’autostrada che porta a Montreal. In parte questo è un commento ingiusto, e lascio ad alcune foto il compito di fare giustizia alla città. La città è in fondo una “capitale” e come tale fa sfoggio di una certa solennità, un parlamento in stile Westminster, e una ambasciata Americana immensa, protetta da mura, quasi una guarnigione fortificata a due passi dal parlamento. Detto ciò la città è una capitale per “mediazione”. La nascita del Canada e la sua esistenza come un paese unico si basa sul compromesso politico tra le provincie dell’Ontario e del Quebec, tra Toronto e Montreal, tra la parte anglosassone e quella francofona. Per questo, al momento della scelta della capitale, sia Toronto che Montreal avrebbero sbilanciato i rapporti di potere a favore di una comunità o dell’altra. Da popolo conciliatore per natura, la scelta della capitale è caduta quindi su una città al confine tra le due provincie. Così come Montreal, anche Ottawa è una città pienamente bilingue. Ma con una differenza notevole. Montreal è una città originariamente bilingue, dove il bilinguismo non si vive solo ascoltando il proprio vicino di tavolo in un caffè, ma è anche un “bilinguismo” di stili di vita, di filosofie, di mentalità. Un punto di incontro strano tra Parigi e New York. Ottawa invece è bilingue per “decreto governativo”. Il parlare entrambe le lingue è condizione necessaria per lavorare in un qualsiasi ufficio governativo. E l’essere burocratica e “ufficiale” rimane il marchio di fabbrica della città.
Dopo una notte a Ottawa, lunedì ho imboccato l’ultima parte del viaggio verso Waterloo. Prima il treno fino a Toronto, e poi da Toronto a Kitchener. L’ultimo tratto in treno è stato bellissimo. Mi sono accorto di non essere un “viaggiatore”, ma di avere bisogno di spostare a scadenze regolari il mio sedere dalla sedia del mio ufficio a quella di un aereo, treno, o autobus. Per trovarsi a disagio in un posto che non si conosce, accettare la possibilità che qualsiasi cosa possa andare nel verso sbagliato, e trasformare quell’incertezza in curiosità. Per il piacere di tornare a casa e scoprire che quel viaggio, per quanto insignificante, in parte ci ha cambiato. Alla fine del viaggio avevo letto 6 libri in 6 giorni. Ne manca uno per finire la lista dei 60 libri che devo portare agli esami di settembre. Come la parte migliore di una torta, ho lasciato per ultimo il libro che più aspettavo. Il sapore che si ha in bocca alla fine conta più del gusto della cena. L'ho lasciato a fare da sottofondo al volo che fra un’ora mi porterà dall’aeroporto di Toronto – da cui sto scrivendo ora – fino a Montreal, Londra, e poi Milano. Ci vediamo nei prossimi giorni.

Trans-Canada Vol.2 - Edmunston

Sabato 26 Luglio. 10 di sere. Succede anche nelle migliori famiglie che i treni deragliano. Per fortuna non è successo al mio. Forse in verità nessun treno è mai deragliato. Ciò che conta è che siamo fermi nel mezzo del nulla. Non proprio mezzo del nulla, ma quasi quasi preferirei essere nel mezzo del nulla. Invece sono a Edmunston. Il treno che ci precedeva ha avuto un guasto e il nostro treno è stato costretto a una deviazione (in Canada i treni sono così rari e le distanze così lunghe che tutte le linee sono a singole). Scendo dal treno, in questa pausa di lunghezza non precisata. Chiedo al ferroviere dove siamo. "Edmunston". Edmonton? Pensavo fosse dall'altra parte del paese. No, Edmunston. Attorno a noi tutto buio. Una cittadina fantasma. Per fortuna anche nel mezzo del nulla in questo paese esiste una connessione internet wireless. Mi affido a Wikipedia (http://en.wikipedia.org/wiki/Edmundston,_New_Brunswick). Scopro che siamo in New Brunswick, nel punto in cui questa provincia si incontra con il Quebec e con gli Stati Uniti (Maine). Popolazione, sedicimila anime. Economia: legname e carta. 98% sono francofoni. Meglio non allontanarmi dal treno allora. Giornali locali: Le Madawaska, La Republique, L'Acadie Nouvelle and Info Weekend. La celebrità locale è Maryse Ouellet, eletta nel 2003 come Miss Hawaiian Tropic Canada, nonchè con un passato da modella di Playboy. Per dovere di cronaca controllo su internet queste informazioni e scopro che oltre a modella è anche una lottatrice di wrestling (http://it.wikipedia.org/wiki/Maryse_Ouellet). Arrivano informazioni. Staremo qui per 3 ore, in attesa che arrivino i pulman con i passeggieri dalle stazioni che abbiamo saltato a causa della nostra deviazione. I treni qui sono come le diligenze nel Far West. Sono così poche che non si possono saltare. 3 ore di sosta che sicuramente mi faranno perdere la combinazione da Montreal ad Ottawa domani mattina.

sabato, luglio 26, 2008

Trans-Canada Vol.2 - Quando il mondo non finisce alla fine del mondo



Venerdì 25 luglio. Ore 11 di sera.
Cosa succede quando scopri che il mondo non finisce alla fine del mondo? All’inizio rimani deluso. La fine non è veramente una fine se non è la fine. Poi pensi che se la fine non è la fine, il mondo deve pur finire da qualche parte e ti metti a cercare questo posto. Fine. Questo è il resoconto di questa giornata.
Al risveglio, colazione veloce in un bar, giusto il tempo di mettere su internet i post precedenti e vergognarmi un po’ del fatto che il governo Italiano definisca l’immigrazione una “emergenza nazionale” (segnale di allarme, al bar ho rifiutato un espresso per bere un caffè americano). Poi mi sono recato sul porto. E ho scoperto che il mondo non finiva alla fine del mondo. La nebbia fitta di ieri sera si era in parte dissolta. Nel punto in cui ieri sera il cielo e il mare si confondevano in un tutt’uno cenereo, nel punto in cui secondo i miei calcoli non avrebbe dovuto esserci altro che l’oceano aperto, bè, in quel punto c’era una striscia di terra. Con case, pure. E un porto. Ero arrivato ad Halifax per vedere l’oceano aperto e poi scoprire che Halifax domina la costa orientale di una baia. Sulla costa opposta un’altra città.
Torno in ostello dove incontro Pernelle, la mia svizzera dai riccioli biondi. Cominciamo a pianificare cosa fare nella giornata. Noto il suo indispettimento improvviso quando provo a rendermi utile nel cercare in che modo può raggiungere la prossima meta del suo viaggio attraverso il Canada. L’indispettimento diventa ironia quando estraggo dal mio zaino la Lonely Planet. A questo punto lei non può più resistere “Avevi prenotato questo ostello in anticipo?”. Ammetto di si. “Tu pianifichi tutto quello che fai?”. Mi ha beccato. “Si, devo essere completamente in controllo di tutto quello che succede intorno a me”. Le differenze tra il nostro modo di viaggiare e di rapportarci con gli altri emergono. Per lei fare programmi durante un viaggio toglie il gusto del viaggio. E’ l’umore, il sentimento e l’istinto del momento che determina la meta. Non il contrario. Penso sia questo lo spirito che ci vuole per trovarsi a 20 anni a Katmandu senza un chiaro progetto e otto mesi dopo a Bankgok. Mi rendo conto del mio essere razionale e pianificatore fino allo sfinimento. In verità, a me viaggiare non piace nemmeno. Non è il viaggio che mi attrae. E il provare a ricostruire l’ordine e al sapermi adattare ogni volta che si arriva in un posto nuovo che mi affascina. Il ricordo del momento a volte conta più del momento.
La mattina inizia tardi con una tipica visita turistica – pianificata – al museo locale di arte contemporanea. Tanto per ricordarci che siamo europei e intellettualmente raffinati. Poi di fronte a un panino con troppa verdura all’interno per i miei gusti, mi mostra una piccola cartina della zona. “Andiamo qui!”. Il punto sulla mappa dice Herring Cove. La Lonely Planet non ne parla, e la cosa mi rende sospettoso di natura. Dice, “voglio vedere l’oceano. Questo posto è sull’oceano”. Non posso obiettare. Una rapida ricerca su Google svela che Herring Cove è un buco nel mezzo del nulla, poche case sparse lungo una strada, e un’ora di autobus di linea.
Penso che ci è mai riuscito ad arrivare alla fine del mondo non lo ha mai fatto pianificando come arrivare alla fine del mondo. E penso che non posso che fidarmi di quei riccioli biondi, per di più svizzeri. L’autobus parte vicino al nostro bar e dopo un’ora ci troviamo ad attraversare delle case sparse e fatiscenti, dove secondo Google dovrebbe esserci un villaggio sul mare. Chiedo all’autista, “quale è la fermata più vicina alla spiaggia?”. Mi guarda dubbioso. “Spiaggia? Non c’è nessuna spiaggia, solo rocce sull’oceano”. Tiro un sospiro di sollievo. Quantomeno c’è l’oceano. L’autista ci da indicazioni su come raggiungere un cammino semi-panoramico, anche se l’ultimo turista si è visto forse nel 1988, quando Gelindo Bordin vinceva la maratona di Seul. Camminiamo per una mezz’oretta inerpicandoci su una collina fino a che davanti a noi non si spalanca l’oceano. Poi una scarpinata di un’ora su un sentiero roccioso che costeggia la costa, fino a una montagna di pietre che sembra un po’ una rovina celtica in un posto dove i celti non hanno mai messo piede. Ma la vista e il vento sono degne di un posto particolare. Ecco come finisce il mondo quindi.
Saluto Pernelle dopo una bella cena (crepè ai frutti di mare, con cozze e gamberi come contorno), ci scambiamo i contatti e le auguro buona fortuna. Domani si riparte. Si torna ad ovest. Si torna ad alternare le pagine di un libro con la vista del Canada che scorre dal finestrino del treno.

venerdì, luglio 25, 2008

Trans-Canada Vol.2 - Halifax e la fine del mondo





Venerdì 25 luglio, 1 di notte.
Sono arrivato ad Halifax nel tardo pomeriggio. All’uscita dalla stazione ferroviaria una nebbia stranamente familiare. Mi reco all’ostello. Di fronte a me una coppia di donne olandesi. Dietro a me nella coda di fronte alla reception un’altra ragazza, riccioli biondi e occhiali verdi. Sullo zaino enorme che porta in spalla ci sono i timbri dell’imbarco in aeroporto LGW-YXZ. Li conosco troppo bene. Partenza: London Gatwick. Arrivo Toronto. Lascio la mia roba nella camera dell’ostello dove un cinquantenne, un po’ biker, un po’ metallaro sta dormendo. Esco, giro, a destra, e senza mi dirigo verso il mare. Non so dove sia di preciso, ma la strada scende, e non ho mai sentito di una città in cui per raggiungere il mare bisogna salire. Sono arrivato a Halifax con la motivazione di vedere finalmente l’oceano. In origine la mia motivazione era di nuotare nell’oceano, ma il costume l’ho lasciato a casa. Volontariamente. Arrivo sul porto. E scopro che l’oceano è scomparso. Ritirato. Inghiottito dalla nebbia. E’ una situazione surreale. Mi sento come alla fine del mondo. Davanti un oceano che in verità non è nemmeno un oceano. Solo uno sfondo di nebbia. Un po’ Casablanca (un po’ cinefili), un porto immenso nella nebbia dove ombre senza ieri e senza domani si incrociano. Un po’ Monkey Island (per gli appassionati di videogiochi degli anni ’80). La nebbia è fitta e non permette di vedere oltre la banchina del porto. La linea che separa il mare dal cielo è inesistente. Grigio ovunque. Come alla fine del mondo.
Non sono deluso. Tutt’altro. La città assume un fascino inaspettato. Come un porto di pirati. Come il primo capitolo di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Decido di visitare la città partendo dalla nebbia. Le navi attraccate sul porto segnano il confine tra la terra e il mare. La città si presenta ovattata e conciliante.
Raggiungo un molo. Seduta su una panchina la ragazza dai riccioli biondi e occhiali verdi che era in coda con me alla reception dell’ostello. In mano ha un taccuino e la vedo disegnare. Sorrido e proseguo nella nebbia. 50 metri e poi torno indietro. Le persone che superano il mio giudizio di “interessante” sono poche su questo continente, e una ragazza attraente e timida, seduta da solo sul molo in un porto alla fine del mondo disegnando su un taccuino, decisamente supera la mia intenzione di “interessante”. “Ciao, scusa. Cosa stai disegnando?” LA conversazione si prolunga per tutta la serata, prima a cena, poi in un pub sul molo. E’ svizzera. Si chiama Perenelle. Le chiedo che origine abbia il suo nome. Storia lunga. I suoi genitori, quando incinta della sua sorella maggiore, si recarono in una sorta di pellegrinaggio pagano su un calesse dalla Sviezzera a Santiago di Compostela. Lungo il tragitto si fermarono in una località dove vi era stato Nicolas Flamel. “A certo, Nicholas Flamel! L’alchimista, scopritore della pietra filosofale”. Mi guarda stupita. Svelo la maschera. “Ho letto Harry Potter e la Pietra Filosofale!”. Pernelle era la moglie di Nicolas Flamel, nonché un antico nome francese. Scopro varie ore dopo qualcosa di più sulla famiglia. I genitori hanno cresciuto la figlia in una comune in svizzera, senza elettrodomestici, frigorifero, e televisione. Poi sono divorziati. Il padre, figlio di una famiglia proletaria, si è innamorato di una giovane peruviana e da anni sta costruendo una casa in Perù. Peccato che la peruviana voglia stare in Svizzera. La madre invece deriva da una famiglia della altra borghesia di Amburgo. Il bisnonno era uno dei soci proprietari del porto di Amburgo alla fine del Ottocento. Il nonno invece era un semplice marinaio, e la storia di come sia riuscito ad avere la mano della giovane ereditiera è confusa e passa per troppe navi e vari continenti. Alla fine però finisce bene. La madre di Perennelle invece finisce in una Comune in Svizzera, ma dopo il divorzio diventa una insegnante di Yoga, che divide il tempo tra la Svizzera e l’India.
Ci rechiamo in un ristorante chiamato “Economic Shoe Store”, dove mi butto sulla specialità di Halifax. Aragosta alla fiamma. Sauvignon Blanc per dare un po’ di stile. La conversazione continua. Lei sta viaggiando tra ostelli e “couch surfing” nel Canada orientale, dopo aver passato 8 mesi da sola in Asia, partendo dal Nepal, attraversando l’India, poi Thailandia, Cambodia, Laos, e Vietnam del Nord. Età? 20 anni. Non ho incontrato molte persone nella mia vita che si siano innamorate di Katmandù. A parte Rino Gaetano, ovviamente. Vivrai in Svizzera? "No, ma ci tornerò quando sono vecchia per morire". Ho sempre avuto l'impressione che la Svizzera fosse un buon posto per svernare la vecchiaia, o per coricarsi su un campo in un pendio e lasciarsi rotolare a valle. Penso non farò nessuna delle due cose.
Nel progettare il resto della serata, cerco la mappa della città nella tasca dei miei pantaloni. Mi ferma. “Il tuo corpo parla una lingua diversa rispetto alla tua bocca”. Chiedo di elaborare. Dice che per tutta la serata ero stato molto aperto, sicuro di me, guidandola per la città che non conoscevo. Ma il modo in cui mi stavo muovendo, le spalle chiuse, e i movimenti a scatti segnalavano un’altra realtà. Il non essere a proprio agio. Insicurezza. Ordino un'altra birra. Lascio agli psicologi o figli di psicologi che leggono questo post di interpretare il significato delle sue parole.

Trans-Canada Vol.2 - Nova Scotia




Giovedì 24 luglio. 12:19 Secondo giorno.
Nova Scotia finalmente. Se il New Brunswick si presentava come un unico bosco, raramente interrotto da qualche fiume, la Nova Scotia assomiglia di più a…. all’Irlanda appunto. La Nova Scotia (Nuova Scozia) è una penisola lunga e affilata in cui nessun punto dista più di 56 km dal mare. Nonostante ciò, del mare nessuna traccia fino ad ora. Ma si intuisce che non è lontano dalle turbine eoliche sulla cima della collina che il treno sta costeggiando. La Lonely Planet – un tempio moderno della cultura libertaria e libertina – sottolinea con sarcasmo il carattere conservatore e ottocentesco di questa provincia, descritta come “l’unica provincia che ancora vieta l’apertura dei negozi la domenica e di recente una giovane è stata privata del titolo di reginetta per aver dormito a casa del suo ragazzo”.

Colonna sonora: Debussy

Trans-Canada Vol.2 - New Brunswick



Giovedì 24 luglio. 8:43 am. Secondo giorno. Sono sempre più fiero della mia capacità di dormire di lusso in qualsiasi spazio e condizione. Questa notte è stata durissima, con le gambe costrette a rimanere piegate in un angolazione strana Incredibile quanto dolorosi siano quel paio di gradi che le separavano da una comodissima linea retta.
Lo speaker annuncia che stiamo abbandonando il Quebec ed entrando nella provincia del New Brunswick. Consulto la fida Lonely Planet. Poche pagine che iniziano con “il New Brunswick è una regione tuttora relativamente poco conosciuta anche agli stessi Canadesi”. Probabilmente neanche quello che ha scritto la guida è voluto venire qui di persona. Continuo. “Qui le maree più alte del mondo hanno creato scogliere maestose” …“Le aragoste e le banchine dei pescatori disseminate lungo le due coste della provincia assicurano succulenti banchetti a base di pesce”. “La vitalissima cultura acadiana è ancora viva sul territorio”. Finalmente qualcosa di interessante. Gli acadiani (o acadici) furono i primi coloni francesi che arrivarono in canada nel XVII secolo. Si insediarono in questa regione, introdussero l’agricoltura, e furono deportati dagli inglesi nel 1755. Molti di loro attraversarono il continente e si trasferirono in Louisiana, dove sono conosciuti come Cajuns. Alcuni di loro tornarono in seguito in questa regione, ma al loro ritorno erano già in larga parte stati rimpiazzati dall’afflusso di nuovi coloni inglesi e dei rifugiati fedeli alla corona inglese che attraversarono in massa il confine dopo la rivoluzione americana.
L’eroe locale, a detta della Lonely Planet a cui io credo incondizionatamente, non è un colono ma la “famosa rana di Fredericton”. Una leggendaria rana del peso di ben 19 kg. “Questo celebre anfibio fece la sua comparsa er la prima volta nel 188 quando saltò letteralmente nella piccola barca di Fred Coleman, un locandiere del luogo”. La rana allora pesava soltanto 3.6 kg, “ma Colema la tenne con sé e la alimentò secondo una dieta ferrea a base di siero di latte, farina di granoturco, piccoli insetti e whisky”, fino a che questa diventò la rana più grande al mondo La rana oggi è custodita gelosamente in una teca di vetro allo York-Sunbury Museum. Ma a questo punto la Lonely Planet introduce sapientemente il giallo. A detta di alcuni la rana nel museo sarebbe un falso, “una riproduzione usata da una farmacia locale per pubblicizzare una medicina per la tosse il cui slogan era ‘un rospo in gola’.” E per concludere l’avvertimento che vi potrebbe salvare la vita in New Brunswick “non chiedete informazioni al personale del museo, in quanto sull’argomento tutti mantengono il più assoluto riserbo”.

Trans-Canada Vol.2 - Montreal


Ore 20:51. Da qualche parte nel mezzo del Quebec. Fuori è già tutto buio. Ho lasciato Montreal sul treno che domani pomeriggio arriverà ad Halifax. Il tratto tra Toronto e Montreal è stato piovoso, e questo mi ha permesso di finire il primo dei sette libri previsti per questi giorni. Il mio primo treno da Waterloo a Toronto era in ritardo e temevo di perdere la coincidenza. In effetti l’avrei persa. Ma ho scoperto che in Canada ci sono così pochi treni, che possono concedersi il lusso di aspettarsi a vicenda.
Compagni di viaggio. Alla mia sinistra una coppia di sessantenni. Nonostante l’età non giovanissima lei sfoggia un Ipod di ultima generazione e calza delle scarpe da ginnastica che le invidio non poco. Quello che non invidio è la persona che dovrà ricevere la maglia che lei sta facendo con i ferri. Colore giallo. Giallo canarino. Le probabilità che torni di moda nei prossimi 20 anni sono statisticamente marginali. Suo marito sembra un contadino emiliano, di quelli che non vanno nemmeno all’osteria alla sera. La pelle è rossa, forse colpita da qualche malattia. La camicia è quadri larghi. Blu e celeste. Appena dietro una bellissima ragazza bionda con il suo bambino. Lui mi sembra di averlo già visto in una pubblicità televisiva di pannoloni. Avete presente, quelli biondi e con gli occhi azzurri. Età. Lui, 2 anni lui. Lei, troppi pochi. Davanti e dietro, il sudoku la fa da padrone.
Le scorse sette ore invece sono stato circondato da una altra famiglia canadese nel tratto tra Toronto e Montreal. Padre, madre, e figlia. Lei guardava un film sul portatile. Lui sfogliava una rivista di biciclette. Per 7 ore. Lei sfogliava una rivista chiamata “housekeeping”. Per 7 ore.
Colonna sonora: Daniele Silvestri – Monetine

Trans-Canada Vol.2 - Verso Halifax




Ore 9 e 07. Seduto sulla panchina di fronte ai binari nella stazione di Kitchener. Cielo livido da una notte di pioggia estiva. Se fossi alla stazione di Fidenza di fianco a me ci sarebbero due pensionati che discutono sulle previsioni metereologiche e sul governo. Piove, governo ladro! Invece qui ci sono una serie di ragazze vestite con un dubbio gusto e largamente in sovrappeso, e un’intera famiglia mennonita. Faccio fatica a contarli, ma i bambini sono troppi e gli adulti troppo pochi Questi sono mennoniti tradizionalisti, di quelli che raragemente si vedono in città. Gli abiti sono fermi al XVIII secolo, le donne sono vestite di blu e nero. Il copricapo ricorda quello di “Lezioni di Piano”. Anche le bambine e i neonati hanno i capelli coperti da un velo. I maschi hanno un copricapo largo che assomiglia a quello che nei Western viene indossato dal sergente borghese con i baffetti (non quello dei cowboys). Corpetto smanicato che effettivamente fanno pensare a un film di Sergio Leone, sopra una camicia grigia per gli adolescenti e blu per i bambini. Le valigie invece sono ferme agli anni ’50. La fattura è di una plastica che non penso Menno (il fondatore) approverebbe. Una donna mastica una gomma da masticare, e non so se Menno approverebbe anche questo.
Seduto sulla panchina di fronte ai binari nella stazione di Kitchener, aspettando il treno. Direzione: Est. Fino all’oceano. Prima ad est fino Toronto. Poi ancora ad est fino a Montreal. Poi ancora ad est fino ad Halifax.
Vado ad Halifax perché mi sono promesso da tempo che devo nuotare nell’oceano per una volta nella mia vita. Ho lasciato a casa il costume da bagno, in modo da avere in futuro una scusa per ripartire. Vado ad Halifax perché prima di terminare il mio primo anno Canadese, volevo essere sicuro di aver visto questo paese – creato non a dimensione adatta all’uomo - da costa a costa. Vado ad Halifax perché gira voce che li cucinino le aragoste migliori al mondo. Vado ad Halifax anche se in verità al momento sono senza un soldo. Ma fra 10 anni avrò i soldi, ma anche un lavoro che mi consuma il tempo, una compagna incinta che non può prendere in treno perché deve andare in bagno ogni 45 minuti. Vado ad Halifax perché l’unica cosa da non fare quando si ha un capriccio, è scacciarlo. Vado ad Halifax perché ho ancora 7 giorni 7 libri da leggere prima di tornare in Italia. Quello che mi serve è solo un treno e un finestrino da guardare distrattamente ogni volta che volto pagina.
Colonna sonora: Irene Grandi

mercoledì, luglio 09, 2008

Se quel 13 Settembre... a Montreal








13 Settembre 1984. Quel giorno nacqui io. 13 Settembre 1759. Quel giorno la mia vita è cominciata ad andare nel verso storto. Quando le truppe francesi agli ordini del Barone di Montcalm avanzarono, le fila inglesi attesero fino a che avessero raggiunto la distanza di 18 metri. Dioi di che il Generale James Wolfe diede l'ordine del fuoco. Il trucco è che i moschetti inglesi erano stati caricati con due proiettili. Dopo la prima carica, un secondo colpo. Uno storico l'ha definita: "la più perfetta carica mai sparata in un campo di battaglia". Per gli amanti della statistica, è stata la carica più letale in termine del numero di vittime inflitte. Quel giorno la via vita è cominciata ad andare veramente nel verso storto.
Tutto quello che succede dopo non è che la logica consequenza. Gli Inglesi vincono. Nella Trattato di Parigi che sigla la pace alla fine della Guerra dei Sette Anni, i Francesi preferiscono tenersi Guadalupe, ricca di zucchero, e rinunciare all'intero Canada. Per il clima li capisco, ma avrebbero potuto pensare un po' anche a me? Si, perchè poi tutto è una spirale verso la desolazione. I francesi finiscono la colonizzazione del continente, gli inglesi lasciano la loro impronta su tutto il paese a Ovest del Quebec. Spariscono i caffè, la cultura, il cibo. Arriva Wal Mart, il caffè Tim Horton, la televisione americana e gli spettacoli del Dottor Phil. Il Canada diventa culturalmente la 51esima provincia Americana.
Da cosa deriva questa mia nostalgia francofona? Dalla scoperta del Quebec, provincia francofona ad Est dell'Ontario. Mi sono recato a Montreal per un fine settimana. La scusa: le "Festival International de Jazz de Montreal", uno dei festival jazz più importanti al mondo. Bellissimo festival. Una zona ampia del centro della città adibito a teatro all'aperto, con una decina di palchi sparsi per ogni spiazzo e piazza disponibile. Musica che si alterna senza sosta dal primo pomeriggio fino a tarda notte per due settimane. Tantissima gente per strada, girovaghi tra un palco e l'altro. Molto estivo, e molto europeo. Diciamo una sorte di Festà dell'Unità raffinata, con gli hotdog al posto della torta fritta e la birra al posto della Malvasia. E il Jazz al posto dell'Orchestra di Liscio Pinino Libè.
Il motivo che mi ha portato a Montreal però non era solo il festiva, ma la città stessa. Me la immaginavo come la mecca. La città "europea" in Nordamerica. E non sono stato deluso. Montreal è una bella città, attraversata dal fiume S.Lorenzo con una sorta di centro storico (storico per modo di dire visto che le cose più antiche datano due secoli), con tanti musei. Allo stesso tempo è una metropoli, con tre milioni e mezzo di abitanti, un bel quartiere commerciale popolato di vetri e grattacieli. Grattacieli si, ma a una altezza "umana" (30 piani), ben diversi da quelli che dominano Toronto o molte città americane. A differenza di Toronto, fatta di tante "isole", quartieri separati da una corsa in taxi, Montreal è una città che si gira totalmente a piedi. A piedi sfilavano migliaia di afrocaraibici sabato pomeriggio, in una parata che ha bloccato la maggiore via del centro per una intera giornata. E a piedi si può arrivare sulla cima del Mont Real, montagnola e parco che domina il centro e su cui mi sono ritirato a leggere in una bellissima domenica di sole. A piedi ci si muove anche d'inverno, nonostate al città sia freddissima (si arriva spesso sotto i -30), grazie a un infinito sistema di tunnel che si dipana per chilometri sottoterra, in una vera città sotto la città.
Soprattutto Montreal è il sogno di cosa questo paese avrebbe potuto essere se i francesi avessero vinto il 12 settembre 1759, e se quella carica perfetta fosse stata un po' meno perfetta. In quel caso, il Canada sarebbe potuto essere un paese veramente bilingue (a differenza di Quebec City, l'inglese non suscita reazioni annoiate nella popolazione francofona). Avrebbe potuto essere un paese con un po' di stile, caffè agli angoli delle strade. Un paese che rifiuta il principio "più grande è, meglio è" come massima espressione estetica. Con i balconi e le scale in ferro battuto. E con le panchine e piazze invece delle "plaza". La differenza non è solo linguistica. Una piazza è fatta per le persone. Una "plaza" a Waterloo è un grande spiazzo circondato da ristoranti e negozi (come da noi), ma con unicamente un parcheggio in mezzo, ad assicurarsi che non ci siano più di 100 passi dall'auto all'hamburger. Se i francesi avessero finto, ci sarebbero meno ragazze con il sorriso da principessa del ballo, capelli biondi lunghi e lisci, tuta e felpa, un po' di chili di troppo, dipendenti dalla chiesa o dalla bottiglia di vodka o entrambi. Se i francesi avessero vinto, il Canada sarebbe un paese completamente diverso, ne un'appendice europea, ne' la 51esima provincia americana.

lunedì, luglio 07, 2008

Fragole tra Nonantola e Fidenza

Ore 11 di sera. Seduto al tavolo con di fronte un piatto di fragole. Dall’altra parte del tavolo, Massimo (non sono così sicuro del nome, io ai nomi non ci faccio caso per fino al terzo incontro). Massimo è il coinquilino modenese, piovuto dal cielo in modo completamente inaspettato qualche giorno fa.
Sente dalla sua camera il rumore di posate, e capisce che non posso che essere io. La dieta dei restanti coinquilini non implica ne piatti ne posate. Cominciamo a parlare, mentre le fragole vengono fatte sparire dai movimenti quasi furtivi delle sue mani.
Età forse 28-30 anni. La barba incolta ma non troppo, la chitarra che ho intravisto nella sua camera, e la maglietta gialla sbiadita ne fanno un perfetto rappresentate della categoria “giovane emiliano, istruito ma un po’ sognatore, abbonato al Manifesto dal 1998”. Conferma che effettivamente è abbonato al Manifesto. Non ho indagato da quanto tempo.
E’ un ricercatore. Forse un biologo. Dopo essersi laureato all’università di Bologna, e dopo aver frequentato l’università italiana sufficientemente a lungo per vedere tutte le sue ambizioni e voglia di rimanervi calpestate una a una, è tornato a Barcellona dove aveva fatto l’Erasmus (galeotto fu l’Erasmus) e ora prosegue il suo dottorato in Catalogna. Si trova accidentalmente in questo angolo di Canada dimenticato dagli dei della meterologia per una collaborazione con un professore canadese.
Ci dividono alcuni anni di vita, ma i pochi chilometri che dividono il parmense dal modenese si sentono subito. I punti di incontro tra le nostre esperienze fanno in modo che la conversazione venga subito dirottata sul tema del “ritorno in Italia”.
Presento la mia versione, ormai collaudata in innumerevoli sedute sull’argomento. Così collaudata che ormai ne sono pienamente convinto e quasi me ne compiaccio. Pensare al tornare in Italia, e porsi il problema è sbagliato e controproducente. Il pensiero non deve nemmeno sfiorarti. Perché? Perché comunque il ritorno rimane non solo una opzione che non è possibile chiudersi, ma una calamita che ci attira. L’Italia rimane il luogo degli affetti, e dell’identità. Rimane il nido. Gli spiego che per questo bisogna non prendere in considerazione la possibilità del ritorno, perché comunque quella è la possibilità più semplice e che ci sarà sempre. Meglio pensare alla nuova meta, o passo in avanti, perché quella possibilità va costruita. Procedo con il secondo punto del mio collaudato discorso alla nazione. Il ritorno è impossibile fino a che non si è immuni. Immuni dalla stanchezza e senso di immobilismo che caratterizza il vivere “politico” in Italia. Il paese dagli orizzonti ristretti, dove l’ambizione suona sempre un po’ ridicola, e non viene particolarmente valorizzata. Gli dico quindi che il ritorno è possibile, ma solo una volta in cui la personalità è stata immersa a sufficienza in un ambiente diverso come quello canadese, da non essere più a rischio di essere assorbita dal paese degli orizzonti ristretti.
Lui mi chiede, quanti anni hai? Gli anni che ci separano sono forse meno significanti della distanza tra il parmense e il modenese, ma sufficienti per aprire una crepa nel mio ragionamento. Quali sono le tue priorità? L’età ti porterà a cambiare le tue priorità, a cercare un altro tipo di felicità che non dipende dal lavoro o dal cammino di crescita personale. A cercare identità e continuità. A quel punto il nido diventa molto più accogliente di quanto possa sembrare a 23 anni. Ma tra il bisogno di riconoscere e riconoscersi negli altri, lui stesso riconosce come il suo discorso stia diventando sentimentale. Il nido, la calamita. Calamita e calamità. Gli chiedo dove vorrebbe crescere e dare un’identità ai propri figli? Ci pensa, ma non risponde. Mi dice che tornando al nido saprebbe cosa e come insegnargli, visto che è dallo stesso nido che ha preso poi il volo.
Bisogno di riconoscersi negli altri che non riesce a soddisfare a Barcellona, dove vive. I catalani non conoscono l’ironia. Una volta superata la barriera linguistica rimangono altre barriere. E i canadesi? Mi dice che gli sembrano semplici, privi della nostra … intervengo io a completare il discorso. Privi della nostra presunzione. Sicuramente privi della mia presunzione. Scelgo questa espressione con attenzione, ben sapendo che “presunzione” non ha necessariamente un connotato negativo. Presunzione non è che il rovescio della medaglia della complessità, raffinatezza di gusti e di idee, gusto, di cui mi fregio ogni giorno con i miei amici e colleghi, quando li descrivo come dei sempliciotti. La presunzione deriva da secoli di storia sulle spalle che respiriamo attraverso un’educazione che ci porta prima di tutto a riconoscere il passato piuttosto che a immaginare il futuro. Provo a dargli quindi una chiave di lettura per capire i canadesi (e i nordamericani in generale). Non riuscirai mai a fare pace con la loro semplicità, mancanza di raffinatezza intellettuale e gusto estetico. Con il loro essere diretti e mai retorici, quasi monodimensionali. Con la mancanza di fascino e capacità di intrigare o stupire. Perché è questo essere “banali” che fa in modo che l’occhio con cui ti guardano e l’orecchio con cui ti ascoltano sono molto più sinceri e genuino. Nessuna presunzione, ne bisogno di giudicare ancora prima che l’interlocutore abbia iniziato a parlare. Apertura vera all’altro. L’opposto di quello che sono e di quello di cui mi vanto di essere, cioè una persona arrogante. Di quelle che finiscono normalmente ad insegnare, piuttosto che ad imparare. Ma è nel percepire questo contrasto che sento il limite di questa attitudine. Fuori dal nido si vive sulla pelle come dal contrasto derivi la possibilità di crescere. Ma ritorna in mente il punto che lui ha presentato prima e che non so scalfire. La felicità di cui parlava è riconoscersi tra gli altri. Quella che descrivevo io invece è cercare di camminare e crescere attraverso gli altri. Inevitabilmente a un certo punto la seconda cede il passo alla prima. Cede il passo al nido.
Nel frattempo le fragole sono scomparse dal piatto che ci divide. Mi saluta, tempo di dormire, per lui. Per me, tempo di scrivere.

venerdì, luglio 04, 2008

Accenno di estate canadese



Sette e mezzo di sera. Il sole è ancora alto. Sono seduto al tavolino esterno di uno Starbucks, bevendo quello che in Italia potrebbe essere spacciato per un cafè shakerato. Il ghiaccio nasconde il fatto che il caffè è pur sempre caffè canadese. Il sole che sta lentamente scendendo, e il 20 gradi fanno dire “chi se ne frega del caffè!”.
Spero di aver stupito qualcuno. L’inverno è finito, e questo è ovvio visto che siamo a luglio. Ma la cosa che stupisce è come questo posto diventi quasi umano a luglio. Le opportunità non sono più limitate dal clima. Se d’inverno il tuo orizzonte è limitato a ciò che non sia a più di 8 minuti a piedi dalla fermata dell’autobus, adesso la mia bici anni-30, ormai supercigolante ma in grado di attirare l’attenzione di qualsiasi donna di mezz’età, ha esteso il mio orizzonte a 20 minuti in bici da casa mia, il limite della mia capacità polmonare. Tutto questo è sufficiente per dare una parvenza di libertà e di estate alla mia vita. In verità, l’estate qui non è veramente estate. Niente Feste dell’Unità. Niente discoteche modaiole in collina. A ciò si aggiunge il fatto che sto preparando gli esami di settembre. Siccome la lista dei libri da portare all’esame è quasi infinita, mi ritrovo a dover leggere un libro al giorno. Ma alla fine della giornata, o meglio, nella pausa tra lo studio prima di cena e lo studio dopo cena, la birra o il caffè su una terrazza è di rito.
L’unico barlume di estate è stato un bellissimo weekend sul Lago Huron. Weekend in tenda nel giardino di un amico. Se tutto questo sembra assurdo, benvenuti in Canada. Mi spiego meglio. Questo ragazzo ha una bellissima in casa a un paio di ore da Waterloo, vicino al Lago Huron. Nonstante questa casa non mancasse di varie stanze libere, l’esperienza “canadese” e il concetto di divertimento in questo paese, obbligano a rivivere l’esperienza della “frontiera”. Quindi ho dovuto dormire in una tenda, nel mega giardino retrostante la casa. Per fortuna l’esperienza della frontiera finiva l’ì e la piscina, l’idromassaggio, e le grigliate erano molto borghesi…. Dio benedica i doppi-standard della borghesia canadese. C’è scappato una giornata di “mare” al lago, con tanto di bagno nelle acque pulitissime ma altrettanto fredde del Lago Huron. Questo è probabilmente l’unico posto al mondo in cui puoi andare a fare il bagno e lasciare il portafoglio e i documenti sulla spiaggia sapendo che tanto li ritroverai al tuo ritorno.

Ieri sera mi sono ritrovato un nuovo coinquilino in casa. E con somma sorpresa scopro che è di…. …. …. Modena. Senza parole.

La mia estate sta per entrare nella sua fase migliore. Domani parto per Montreal. Weekend al Jazz festival, e occasione per scoprire una città che si annuncia meravigliosa. Poi a fine estate finisco la mia missione di attraversare il paese. Ad aprile ho viaggiato in treno da Waterloo all’estremità ovest del paese, cioè Vancouver. Adesso prendo il treno fino all’estermità est del paese, cioè Halifax. Poi il 30 luglio, la parte migliore dell’estate. Torno in Italia. Il richiamo della torta frittà è troppo forte.