venerdì, luglio 25, 2008

Trans-Canada Vol.2 - Halifax e la fine del mondo





Venerdì 25 luglio, 1 di notte.
Sono arrivato ad Halifax nel tardo pomeriggio. All’uscita dalla stazione ferroviaria una nebbia stranamente familiare. Mi reco all’ostello. Di fronte a me una coppia di donne olandesi. Dietro a me nella coda di fronte alla reception un’altra ragazza, riccioli biondi e occhiali verdi. Sullo zaino enorme che porta in spalla ci sono i timbri dell’imbarco in aeroporto LGW-YXZ. Li conosco troppo bene. Partenza: London Gatwick. Arrivo Toronto. Lascio la mia roba nella camera dell’ostello dove un cinquantenne, un po’ biker, un po’ metallaro sta dormendo. Esco, giro, a destra, e senza mi dirigo verso il mare. Non so dove sia di preciso, ma la strada scende, e non ho mai sentito di una città in cui per raggiungere il mare bisogna salire. Sono arrivato a Halifax con la motivazione di vedere finalmente l’oceano. In origine la mia motivazione era di nuotare nell’oceano, ma il costume l’ho lasciato a casa. Volontariamente. Arrivo sul porto. E scopro che l’oceano è scomparso. Ritirato. Inghiottito dalla nebbia. E’ una situazione surreale. Mi sento come alla fine del mondo. Davanti un oceano che in verità non è nemmeno un oceano. Solo uno sfondo di nebbia. Un po’ Casablanca (un po’ cinefili), un porto immenso nella nebbia dove ombre senza ieri e senza domani si incrociano. Un po’ Monkey Island (per gli appassionati di videogiochi degli anni ’80). La nebbia è fitta e non permette di vedere oltre la banchina del porto. La linea che separa il mare dal cielo è inesistente. Grigio ovunque. Come alla fine del mondo.
Non sono deluso. Tutt’altro. La città assume un fascino inaspettato. Come un porto di pirati. Come il primo capitolo di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Decido di visitare la città partendo dalla nebbia. Le navi attraccate sul porto segnano il confine tra la terra e il mare. La città si presenta ovattata e conciliante.
Raggiungo un molo. Seduta su una panchina la ragazza dai riccioli biondi e occhiali verdi che era in coda con me alla reception dell’ostello. In mano ha un taccuino e la vedo disegnare. Sorrido e proseguo nella nebbia. 50 metri e poi torno indietro. Le persone che superano il mio giudizio di “interessante” sono poche su questo continente, e una ragazza attraente e timida, seduta da solo sul molo in un porto alla fine del mondo disegnando su un taccuino, decisamente supera la mia intenzione di “interessante”. “Ciao, scusa. Cosa stai disegnando?” LA conversazione si prolunga per tutta la serata, prima a cena, poi in un pub sul molo. E’ svizzera. Si chiama Perenelle. Le chiedo che origine abbia il suo nome. Storia lunga. I suoi genitori, quando incinta della sua sorella maggiore, si recarono in una sorta di pellegrinaggio pagano su un calesse dalla Sviezzera a Santiago di Compostela. Lungo il tragitto si fermarono in una località dove vi era stato Nicolas Flamel. “A certo, Nicholas Flamel! L’alchimista, scopritore della pietra filosofale”. Mi guarda stupita. Svelo la maschera. “Ho letto Harry Potter e la Pietra Filosofale!”. Pernelle era la moglie di Nicolas Flamel, nonché un antico nome francese. Scopro varie ore dopo qualcosa di più sulla famiglia. I genitori hanno cresciuto la figlia in una comune in svizzera, senza elettrodomestici, frigorifero, e televisione. Poi sono divorziati. Il padre, figlio di una famiglia proletaria, si è innamorato di una giovane peruviana e da anni sta costruendo una casa in Perù. Peccato che la peruviana voglia stare in Svizzera. La madre invece deriva da una famiglia della altra borghesia di Amburgo. Il bisnonno era uno dei soci proprietari del porto di Amburgo alla fine del Ottocento. Il nonno invece era un semplice marinaio, e la storia di come sia riuscito ad avere la mano della giovane ereditiera è confusa e passa per troppe navi e vari continenti. Alla fine però finisce bene. La madre di Perennelle invece finisce in una Comune in Svizzera, ma dopo il divorzio diventa una insegnante di Yoga, che divide il tempo tra la Svizzera e l’India.
Ci rechiamo in un ristorante chiamato “Economic Shoe Store”, dove mi butto sulla specialità di Halifax. Aragosta alla fiamma. Sauvignon Blanc per dare un po’ di stile. La conversazione continua. Lei sta viaggiando tra ostelli e “couch surfing” nel Canada orientale, dopo aver passato 8 mesi da sola in Asia, partendo dal Nepal, attraversando l’India, poi Thailandia, Cambodia, Laos, e Vietnam del Nord. Età? 20 anni. Non ho incontrato molte persone nella mia vita che si siano innamorate di Katmandù. A parte Rino Gaetano, ovviamente. Vivrai in Svizzera? "No, ma ci tornerò quando sono vecchia per morire". Ho sempre avuto l'impressione che la Svizzera fosse un buon posto per svernare la vecchiaia, o per coricarsi su un campo in un pendio e lasciarsi rotolare a valle. Penso non farò nessuna delle due cose.
Nel progettare il resto della serata, cerco la mappa della città nella tasca dei miei pantaloni. Mi ferma. “Il tuo corpo parla una lingua diversa rispetto alla tua bocca”. Chiedo di elaborare. Dice che per tutta la serata ero stato molto aperto, sicuro di me, guidandola per la città che non conoscevo. Ma il modo in cui mi stavo muovendo, le spalle chiuse, e i movimenti a scatti segnalavano un’altra realtà. Il non essere a proprio agio. Insicurezza. Ordino un'altra birra. Lascio agli psicologi o figli di psicologi che leggono questo post di interpretare il significato delle sue parole.