mercoledì, giugno 17, 2009

Due anni in due valigie

Ore 9:30. 17 Giugno. L’autobus Greyhound sta lasciando la stazione di Kitchener in una mattina afosa in cui il sole fatica a fare capolino. Nelle cuffie una canzone degli U2 che mi sono ritrovato in testa al risveglio e che parla di “tutto cio’ che non puoi lasciarti alle spalle” (All That You Can’t Leave Behind). Non mi sono lasciato molto alle spalle quando poco fa ho chiuso a chiave la casa. E con un misto di orgoglio e di vergogna, sono riuscito a fare entrare due anni di vita in Canada in due valigie. Una valigia e un trolley, per la precisione. Solo poche cose sono rimaste non sono entrate in valigia. Un letto e una cassettiera Ikea. Avevo avuto problemi a montarli. Smontarli mi sembrava una sfida al di sopra delle mie possibilita’. Allora li ho lasciati al loro posto, ad aspettarmi. Quasi un centinaio di libri comprati in meno di due anni. Mentre sfogavo la mia pulsione da bibliofilo represso su Amazon.com non mi sono mai chiesto come li avrei coniugati con la mia vita da studente semi-nomade. Mi sono lasciato dietro una bicicletta, stile anni ’30. Venderla era impossibile, visto lo strato di ruggine anni 2008-2009 che avvolgeva manubrio e telaio. Mi sono quindi affidato al vecchio metodo all’italiana. Ho evitato di chiudere il lucchetto dovunque andassi, sperando nella grazia di un ladro che mi sollevasse il dilemma di far entrare una bicicletta in una valigia e un trolley. Ma a differenza dell’Italia, c’e’ voluto non una notte, ma due mesi. Per fortuna gli studenti squattrinati o ubriachi in cerca di biciclette esistono anche in Canada.
Quello che non ho potuto lasciarmi alle spalle invece sono delle persone. Poche in verita’. Non sono stato particolarmente bravo in questi due anni a coltivare molte amicizie che penso resisteranno la sfida del tempo. Ma alcune sono convinto che lo faranno. Penso che due anni in Canada mi abbiano cambiato. In parte mi hanno fatto regredire come “animale sociale”, visto che per la maggior parte di questo tempo sono stato un estensione del mio portatile, e il lavoro (o studio) hanno occupato tutte il mio tempo, forze, e ambizioni. Ma penso di aver imparato tantissimo da quegli amici Canadesi che hanno condiviso questo con me. Se qualcuno mi dicesse che sono diventato un po’ Canadese, giuro che ne sarei orgoglioso.
Nonostante cio’ questa e’ la partenza piu’ facile che abbia mai affrontato. Penso di aver scritto su questo blog di altre partenze. Quelle da Manchester. La prima, tragicomica-sentimentale. La seconda. Un pomeriggio in cui il sole di Gennaio spazzava il cielo inglese, e io tornavo in Italia con la consapevolezza che il mio posto negli anni successivi sarebbe stato all’estero per continuare quegli studi di cui avevo avuto il primo assaggio durante l’Erasmus. La partenza da Bruxelles, con la prospettiva di Londra davanti a me; e quella da Londra, esausto da quello che era stata l’esperienza di studio piu’ dura ma piu’ bella fino ad’ora. Invece questa volta, sono le emozioni sono poche. Nonostante in questo paese che amo ho passato due anni della mia vita. In parte perche’ sono diventato bravo a “partire”, bravo a pensare a quello che mi aspetta all’arrivo e a non pensare a quello che mi lascio alle spalle. In parte perche’ in verita’ questo non e’ un addio, ma un piu’ facile “a presto”. Ho deciso che non vivro’ piu’ a Waterloo, e che la vita della piccola cittadina universitaria nel mezzo della regione dei Grandi Laghi mi avrebbe ucciso. Ma non ho tagliato i ponti. Per i prossimi due anni rimarro’ uno studente di questa universita’, i miei punti di riferimento saranno professori, colleghi, e amici che sono rimasti a Waterloo, e soprattutto continuero’ a pagare le tasse al governo canadese. E l’idea di tornare in Canada fra un paio di anni per finire il mio dottorato mi rende felice.
Ma ci sono altri due motivi per cui questa partenza e’ facile ed emozionante. Il primo motivo e’ perche’ sto tornando in Italia. E se fino a poco fa, questo non avrebbe necessariamente reso la partenza piu’ facile, questa volta ho veramente bisogno di rimanere in quel paese instabile per un po’. Il bisogno di essere distratto, frustrato, di partecipare ad eventi di famiglia, di rompere quella meravigliosa apatia nei confronti del sistema politico italiano che avevo faticosamente costruito negli ultimi due anni, di percorrere chilometri per rivedere amici, di lasciare il lavoro che sto finendo ininterrotto per sedermi a tavola con altre persone. Ho bisogno di questo per fare un passo indietro rispetto a quella “macchina da guerra universitaria” che stavo diventando a Waterloo.
Il secondo motivo per cui e’ facile lasciare Waterloo, e’ perche’ ho una nuova partenza che mi aspetta verso la fine dell’estate. Destinazione: New York a settembre. Non ho scritto su questo blog per troppo a lungo e penso che quasi nessuna delle persone per cui questo blog e’ scritto visiti ancora queste pagine. Ma questa e’ una di quegli annunci e di quei momenti che voglio poter rileggere in futuro.

martedì, aprile 07, 2009

Alla fine ho scelto la giacca

Alla fine ho scelto la giacca. Non volevo essere preso troppo seriamente. Non volevo prendermi troppo sul serio. Ma presentarmi in classe semplicemente indossando una felpa con il cappuccio da 15enne (che continuo ad indossare quotidianamente a 24 anni) sarebbe stato forse eccessivo. Cercare attraverso i vestiti la sottile linea che segna il punto di incontro tra il professore autorevole, temuto e ammirato, e il professore finto-giovane e giovinastro. Alla fine mi è sembrato che la giacca e le scarpe da ginnastica rappresentassero un buon compromesso. Ma alla seconda lezione ho abbandonato la giacca ed sono rimaste le scarpe da ginnastica.
Uno dei mille motivi per ho preso una pausa di 5 mesi da blog e’ dovuto al fatto che ho iniziato ad insegnare. Un corso universitario. Non come correttore di esami, o assistente di un professore. Un corso tutto mio. Il modo in cui ho avuto la posizione è attraverso una segnalazione da parte del mio relatore e mi ritrovato con un contratto di quattro mesi che mi definiva “Adjunct Lecturer” (dove Adjunct sta per “temporaneo”, “semestrale”, “precario come foglie d’autunno”) e un corso da disegnare da zero.
Da zero. Panico. Foglio vuoto sulla mia pagina di Word. Cosa devo insegnare? “Più o meno quello che vuoi”, risposta del capo-de-capis del Dipartimento di Scienze Politiche. Risposta mia: “nessun problema”. Di dentro, panico. Cosa vale la pena di essere insegnato? Mi stavano dando un pezzo di responsabilità sulla formazione universitaria di un gruppo di studenti. E se lo avessi sprecato? Qualche giorno su Google a cercare i programmi di corsi simili insegnati in università americane. Poi lentamente rendersi conto che le notizie che si accumulavano ogni giorno sui giornali legati alla crisi finanziaria erano molto più “urgenti” che articoli accademici pubblicati 15 anni fa. In un mondo che si stava contorcendo su se stesso, forse quello valeva la pena di essere spiegato. Ho preso la crisi finanziaria come la chiave per attirare la loro attenzione e ho costruito un corso attorno a temi accademici che vengono in qualche modo toccati dagli spasmi che stanno sconvolgendo i mercati finanziari. La posizione internazionale degli Stati Uniti e il rapporto con la Cina. Il ruolo del dollaro. La fine della globalizzazione finanziaria? Il Fondo Monetario Internazionale. Dopo un paio di mesi, la creatura era nata. Tutta suo padre. Ma il rischio è che piacesse solo al padre. O che fosse troppo facile. O troppo difficile. O troppo noioso. O troppo poco rigoroso. Alla fine penso che la scelta si sia rivelata fortunata. In parte perche’ nelle discussioni in classe potevo fondere la teoria con le migliaia di aneddoti che si raccolgono in questi giorni sui giornali. In parte perche’ e’ stato molto piu’ facile catturare la loro attenzione.
Insegnare è facile. O almeno, insegnare da una cattedra è facile. Basta avere tempo, preparazione, e auto-stima. Tempo per tornare ai libri che non si aprono da anni e capire quale sia il modo più chiaro ed efficace per trasmettere concetti. Preparazione su un certo tema, per riempire la lezione di esempi, casi, aneddoti, interrogativi, che rendano il tema interessante. E autostima, per vendersi alla classe e dare l’impressione che si padroneggi alla perfezione i temi di cui si sta parlando, anche se in verità si sta pattinando su un ghiaccio molto sottile. Questo lo so fare. “L’ho fatto dalla prima superiore”. Stare su un palco e “ “trasmettere” conoscenza, che sia spiegare come si risolve un’integrale o un ripasso generale su Leopardi prima del tema della maturità, non è difficile. Quello che è più difficile è scendere dal palco, e sedersi in cerchio, provando ad insegnare senza dare l’impressione che si sta insegnando. Ho provato a fare entrambi, dividendo le mie tre ore settimanali in due parti. La prima metà in piedi, facendo lezione. La seconda metà seduto attorno a una tavola rotonda. Una discussione con gli studenti. Come immaginavo, sono molto piu’ bravo a pontificare da un pulpito che ad ascoltare e guidare una conversazione.
Il corso è ormai finito e si avvicina il tempo di dare voti. E anche questo genera panico. Non sono sicuro di avere diritto di giudicarli, dare un voto alle loro idee. Alcuni miei studenti sono padri di famiglia, con due figlie e il terzo in arrivo. Altri stanno per abbandonare l’universita’ e cercare un lavoro. E se i miei voti avessero un effetto sulle loro possibilita’ di trovarne uno? Soprattutto, dopo 18 anni da studente, tra elementari, medie, superiori, e universita’, mi sono reso subito conto di quanto i voti siano assolutamente arbitrari e insignificanti. Mi spiego meglio. E’ facile identificare quale studente e’ piu’ sveglio di un altro, quale saggio sia migliore di un altro. Ma assegnare un numero a un insieme di idee e’ completamente arbitrario. 27 o 30 (in Italia)? 75 o 80 (in Canada)?
E ora che ho finito il corso, sono sicuro di aver imparato piu’ di quanto abbiano imparato gli studenti. Imparato nel discutere con loro e leggere i loro scritti. Imparato nel preparare le lezioni. Nell’andare a rispulciare appunti presi piu’ di due anni fa, nuove letture, vecchi libri, e cercare di comunicarli agli studenti. Ma soprattutto ho imparato qualcosa in piu’ dei miei limiti.
Fine del quadrimestre e mi preparo per dare i voti ai loro saggi finali e immagino che loro stiano in pensiero attendendo il mio giudizio. Quello che non sanno e’ che sono io quello in pensiero, attendendo i voti che loro mi hanno dato nella “valutazione del docente” da parte degli studenti a cui sono stato sottoposto a fine corso.

lunedì, dicembre 01, 2008

Pechino Vol.8 - Le campane di Pechino


"A Pechino le campane non suonano mai". Me lo dice M. mentre a bordo di un taxi attraversiamo la città in una mattina di sole. E' riprendiamo una conversazione iniziata un anno prima sulla nostra esperienza di persone che non brillano in religiosità in luoghi in cui quella parola ha un significato diverso. La conversazione era iniziata un anno prima, e quella volta era toccato a me parlare delle mie esperienze a vivere in una comunità in un paese come il Canada in cui, lontano dall'ombra del Vaticano, le varie confessioni protestanti rappresentano una forza che plasma la vita larghi strati della popolazione nella loro vita di ogni giorno.Adesso tocca lei, parlare della sua esperienza, uguale e contraria in Cina.
Prendo in prestito le parole che M. ha scritto in una mail, e con la sua autorizzazione le ricopio qui.

"A Pechino le campane non suonano mai, in Cina La religione è un argomento complicato.
Durante l’era di Mao le religioni, di qualsiasi tipo, erano proibite, si credeva e si doveva credere nel comunismo, ma storicamente o tradizionalmente, come piace tanto dire ai cinesi, la Cina non è mai stato un paese molto religioso e il loro approccio alla vita è da sempremolto pratico, votato all’equilibrio delle cose in terra più che al raggiungimento di obiettivi ultraterreni.
In epoca imperiale, Imperatore e Dio spesso si confondevano, l’Imperatore era il figlio del cielo, tenutario del potere politico in terra e figura sacra per il popolo.
Taoismo e Confucianesimo si occupano di cose molto terrene e quotidiane, insegnano agli uomini come comportarsi nella vita di tutti i giorni e sono tra “le fedi” oggi più seguite.
La costituzione cinese dice che lo stato protegge tutte le “normali attività religiose”,qualunque cosa significhi, ma non possono esistere altre forme di autorità oltre il Partito Comunista, ecco perché il Papa ha un po’ di problemi con la Cina e lo Stato Vaticano non ha relazioni ufficiali con la Repubblica Popolare Cinese. Il messaggio è che non c’è nulla più forte del Partito.
Il mio professore dice che a scuola s’insegna ai bambini che credere in un qualsiasi Dio è stupido, una cosa un po’ da matti, dice che in Cina c’è una mancanza di morale e spiritualità preoccupante.
Nel libro che sto leggendo, un ufficiale del partito spiega come in un paese grande come la Cina la democrazia non sia praticabile, il Partito ha, infatti, il ruolo essenziale di mantenerel’ordine sociale e di prevenire il caos. L’autrice lo incalza chiedendogli come mai l’India, altrettanto grande ma democratica, non sia ancora precipitata nel caos, lui risponde candido che in India esiste la religione per controllare il popolo.
Anche questa volta l’incontro e lo scontro con questo paese così diverso dal mio, mi portano a confrontarmi con i simboli della mia cultura e a riconsiderare le mie posizioni.
Il mio approccio alla questione religiosa solitamente molto pratico e razionale, è stato messo in crisi dal pragmatismo cinese. Per la prima volta, non senza un po’ di stupore, mi sono trovata a considerare la possibilità di credere in Dio, qualsiasi esso sia, come una libertà dell’uomo e l’ateismo imposto o caldeggiato come una forma di violenza sociale e culturale.
La fede, per quanto sia spesso polemica nei suoi confronti, porta con sé l’opportunità di un mondo immateriale e invisibile, con cui confrontarsi, abituata ad una religione che si intromette nella politica, non avevo mai considerato l’opposto, una politica che si intromette nella religione.
Il mio professore dice che le religioni hanno abituato i popoli occidentali a far riferimento a diversi poteri, e quindi ad accettare meno volentieri dittature e autoritarismi fare a meno di sorridere agli scherzi del relativismo culturale."

sabato, novembre 29, 2008

Pechino Vol.7 - L'umiltà di non capire




All’interno di queste domande, rimangono dodici giorni bellissimi, rimangono le corse in taxi nella notte di Pechino, rimangono i volti bellissimi degli anziani e dei bambini, rimangono le foto fatte con le scolaresche cinesi che ti fermano in piazza Tienanmen, rimane lo spettacolo meraviglioso di M. che contratta mezz’ora con una ragazzina cinese per riuscire a strappare ogni Yuan possibile dal prezzo di quegli stivali, rimangono delle cene memorabili, rimane lo stupore nel cogliere la varietà di popolazioni, etnie, e visi costituiscano la Cina, e come questi si mescolino in un “mostro” come Pechino. Rimane la frustrazione per non avere una chiave di lettura. E il pensiero che per capire Pechino, per capire la Cina serva prima di tutto l’umiltà. L’umiltà di venire fin qui e dedicare almeno uno o più anni interi per imparare la lingua. Una lingua che come dice M. non si impara ma si metabolizza. Le nostre categorie cognitive, schemi mentali, e capacità di ragionare sono mediati dalla nostra lingua. Capire la Cina richiede l’umiltà di lasciare che una lingua con un alfabeto e una struttura completamente opposti al nostro, influenzino ciò che considero tra le cose più preziose, la nostra capacità di pensare. Capire Pechino richiede l’umiltà di guardare ai suoi cittadini mettendo da parte il nostro Euro-centrismo, e il nostro senso di superiorità che ci portiamo dietro. Capire Pechino richiede l’umiltà di “sospendere il giudizio”, come mi dice Luca. Accettare che i nostri occhi, il nostro passato, la nostra lingua, e i nostri valori non ci permettono di capire totalmente, senza distorcere o banalizzare. Capire Pechino richiede l'umiltà di non capire. Per questo motivo ho capito che non potrei mai vivere in questa città. Il fascino della vita dell’Occidentale in Oriente si scontrerebbe contro l’incapacità di capire la realtà in cui si vive senza aver prima rinunciato a molte delle nostre convinzioni. Significherebbe accettare che sia la città e la sua cultura a plasmarci. Ma ho tantissima ammirazione per chi prova a farlo, e come un bambino sui banchi di scuola, passa ore a re-imparare a parlare, e mette in fila ideogrammi, uno dopo l’altro in fila su un quaderno.

Pechino Vol.6 - Il volto dell'imperatore




Non ho trovato la chiave di lettura per capire come il Partito Comunista sia saldo al potere, mentre allo stesso tempo rimanga completamente invisibile ai miei occhi. Durante la nostra visita, Silvia nota come la Città Proibita sia un luogo estremamente impersonale. Ha ragione. La Citta Proibita è l’antica residenza degli imperatori, il cuore segreto della città. Il nome deriva dal fatto che la pena per i comuni cittadini che osassero avventurarsi all’interno fosse appunto la morte. Per due volte il Partito Comunista dopo la rivoluzione pianificò di radere al suolo questo simbolo della tradizione e dell’oppressione imperiale. Paradossalmente, furono il Grande Balzo in Avanti, e la Rivoluzione Culturale a distogliere il partito da questi piani. Racchiusa da mura che la separano dal resto della città, la Città Proibita è una serie infinita di cortili interni separati da maestose porte con i tetti a Pagoda. Perfettamente simmetrica, si dispiega sull’ asse Nord-Sud che domina la città. Alle sue spalle una collina come secondo i dettami del Feng Shui. Silvia ha ragione, è impersonale. E’ un inno al potere ma non dice nulla dei potenti che vi abitarono, dell’ascesa e declino delle diverse dinastie che si successero tra queste mura. Ma nella sua impersonalità è perfetta, armoniosa. E’ impersonale come il potere che controlla la Cina. Finita l’era degli imperatori, fu l’ora del nuovo imperatore, Mao Zedong. Ora che la Cina ha in parte voltato pagina, l’imperatore rimane il Partito Unico, Comunista di nome. Mi stupisco per la quasi completa mancanza di simboli ed effigi che rappresentino il partito per le strade. Così come per la libertà di giocare e deridere le icone del partito come Mao che viene concessa agli artisti che espongono nel 798, un complesso industriale ora riconvertito in varie gallerie d’arte. Mi stupisco della varietà di libri in inglese che si trovino nelle librerie, o dell’accesso alla quasi totalità di fonti di informazioni internazionali su internet. Mi stupisco ad avere una conversazione al tavolo di un ristorante in cui un ragazzo canadese inveisce ad alta voce in inglese contro la politica del partito in Tibet, e come tutto ciò mi sembri estremamente naturale. M. mi viene in soccorso. Mi spiega la raffinatezza del regime e del sistema di controllo. Censurare gli artisti è controproducente. Così come è inutile censurare i quotidiani internazionali su internet negare le informazioni a quei cinesi che padroneggiano la lingua o agli stranieri che vivono qui. Così è controproducente provare a limitare gli stranieri che di fatto in Cina godono di quasi tutte le stesse libertà che ritrovano nei loro paesi d’origine, compresa quella di criticare il regime, a patto di non farlo su fonti pubbliche. Queste garantire maggiori libertà a queste nicchie della popolazione non compromette la legittimità del regime. Oggi la legittimità del regime deriva principalmente dal tasso di crescita dell’economia cinese. Un punto in meno di crescita del prodotto interno lordo a ripercussioni politiche. Un punto. Un numero, niente di importante rispetto a valori che tendiamo a considerare più sacri all’interno della democrazia. Ma ancora mi manca la chiave di lettura per capire come un punto, un numero, rappresenti una differenza enorme nelle condizioni di vita di milioni di persone, centinaia di milioni di persone, più di un miliardo di persone.

Pechino Vol.5 - La democrazia Cinese



E questo per me è ancora più difficile da accettare. Non ho trovato la chiave di lettura per capire come la più grande minaccia al mantenimento del potere del partito comunista sia il fatto che il paese, a differenza dell’India, non abbia affrontato ne si appresti a farlo nel futuro, la transizione alla democrazia. M. mi dice, la più grande bomba ad orologeria per il regime viene dal basso, dalle campagne, dai poveri. Non dall’alto. E questo mi lascia perplesso. Le riforme economiche degli ultimi 30 anni hanno dato vita a una dinamica classe imprenditoriale che è diventata sempre più influente nel paese. Una nuova borghesia che non ha nulla a che fare con il passato, che manda i figli a studiare negli Stati Uniti o in Canada, che legge l’inglese e fa affari con il resto del mondo è ora consolidata nelle maggiori città. E io penso che una volta che certi gruppi sociali abbiano risolto il problema della fame, un altro tipo di fame sopraggiunga. Che il benessere economico porti a domande di maggiori libertà politiche, libertà di espressione, libertà di culto. M. mi dice che questo non preoccupa più di tanto l’elite al potere. Il partito unico ha assorbito molti esponenti di questa classe imprenditoriale nei propri ranghi, e loro sono stati disposti ad unirsi al partito perché ciò voleva dire assicurarsi le condizioni per condurre ed accrescere i propri affari. Ma c’è qualcosa di più. Non è solo cooptazione. E’ anche consapevolezza. M. mi dice come l’elite cinese, sia quella nei ranghi del partito che quella economica, sia consapevole del momento storico in cui il paese si trova. Di come ogni richiesta di maggiori libertà democratiche, così come ogni strappo che possa indebolire il controllo del partito, metta a rischio la crescita economica, e il passaggio definitivo della Cina dall’epoca premoderna alla modernità. Una frase che risuona spesso tra gli intellettuali all’interno del paese è “in Cina la democrazia sul modello occidentale non funzionerebbe perché ci sono un miliardo e mezzo di persone”. Questo è falso, visto l’esempio dell’India. Ma quello che è vero un passaggio verso maggiori libertà politiche, d’espressione, e di religione potrebbe minare il processo lineare di crescita economica che il paese ha vissuto negli ultimi decenni. Rompere l’armonia interna. M. pazientemente risponde alle mie domande e spiega come nella cultura Cinese l’individuo non abbia mai avuto un ruolo preciso separato dalla comunità a cui appartiene. I diritti dell’individuo vengono ridimensionati dal bisogno di preservare il benessere della comunità. Di come la nozione di stato, nazione, e potere, che sia l’imperatore, Mao, o il Partito Comunista, si confondono. Lo stupore dura poco, tempo di rendersi conto che in Europa i diritti individuali sono un passaggio che ha origine pochi secoli fa, con l’umanesimo, e la Rivoluzione Francese. Ma mi chiedo in che modo l’apertura al mondo della Cina abbia portato all’interno del paese le richieste di diritti individuali nel campo economico, il diritto di impresa, il diritto di commerciare e perseguire il proprio benessere economico individuale. Ma che allo stesso tempo le richieste di diritti individuali non si estendano ad altri aspetti che io considero sacri, come il diritto di espressione.

Pechino Vol.4 - Il mostro



Non ho trovato la chiave di lettura per capire questo “mostro” sovrappopolato. Per capire come 18 milioni di persone possano affollare questa città sotto l’occhio discreto di un regime che non si manifesta troppo palesemente. La Città Proibita è da secoli il simbolo del potere in Cina, e nei suoi enormi spazi interni avvolge migliaia di turisti che la attraversano in maniera ordinata da Sud a Nord. In quegli spazi immensi ci sente minuscoli mentre ci si lascia trascinare dalla massa infinita di turisti. Quasi non ci si accorge che si è tra i pochi turisti non cinesi tra la folla, e che i loro sguardi spesso si posano su di te, per poi deviare all’improvviso non appena te ne accorgi. Uno degli elementi impossibili da ignorare a Pechino è appunto questa folla. Pechino è un mostro sovra-popolato in cui un ordinato caos regna nelle strade. La città è diventata la meta per migliaia o milioni di persone che dalle campagne cinesi si sono riversate nella città in cerca di condizioni di vita migliori. Si nota dalle tantissime persone che spazzano la strada a ogni ora. Dai tantissimi camerieri in ogni ristorante. Non si è mai soli in questa città. Nel camminare per le via ci si perde nella folla, ne’ si viene assorbiti. Si ha l’impressione che molti di quei lavori siano creati artificialmente per mantenere la pace sociale. Chiedo quale sia la bomba ad orologeria che mini la stabilità del regime comunista in Cina? M. risponde che è proprio questa. La Cina si trova con il compito immane di elevare più di un miliardo di persone che vivono nelle campagne verso un tenore di vita più alto. L’inflazione galoppante, la corruzione nelle fila del partito lontano da Pechino, l’ineguaglianza tra la città e la campagna rappresentano pericolose trappole lungo questo tragitto, che con frequenza danno vita a rivolte in vari angoli del Paese.

Pechino Vol.3 - Le colonne d'acciaio della Città Proibita



Scrivere sul blog dopo un viaggio è un regalo che mi faccio, una scusa per riflettere sulle cose viste, le esperienze vissute, le persone incontrate. Adoro dare giudizi, il più decisi e perentori possibili. L’ho fatto sempre in Inghilterra. L’ho fatto sempre in Canada. Ma questa volta è difficile. Non ho trovato la chiave per aprire la città. La chiave di lettura per decifrare la città non passa attraverso lo sguardo del turista. La città non cattura gli occhi. A fianco di Silvia, i primi giorni sono stati dedicati agli itinerari turistici. La Città Proibita. Poi il Tempio del Cielo, e il Palazzo d’Estate. La Grande Muraglia. La Pagoda Bianca e il Tempio del Lama. Ma chi spera di trovare la chiave di lettura attraverso passato di Pechino si scontra subito con la realtà che persino le colonne dei padiglioni che separano i cortili interni della Città Proibita sono fatti d’acciaio dipinto di rosso. Silvia si indegna. M. spiega che l’idea di “conservare” il patrimonio storico è lontano dalla cultura cinese. Più naturale copiare e ricostruire. As esempio, gli hutong, le case antiche che popolavano il Pechino, basse e che si affacciano su un cortile interno mentre nulla traspare dal di fuori. Queste sono state in larga parte distrutte negli ultimi anni, con un accelerazione notevole a ridossi delle olimpiadi. Al loro posto grattacieli. La città che si sviluppava a macchia d’olio in orizzontale, ora si alza in piedi. L’idea che distruggendo gli hutong si distrugga anche il patrimonio storico di Pechino impallidisce di fronte all’idea che costruendo al loro posto dei grattacieli si permette alle nuove persone che hanno raggiunto il benessere economico di vivere in case con l’acqua corrente, e a Pechino di diventare una città moderna. Il futuro cinese richiede spazio, e il passato deve farsi da parte. E’ impossibile trovare la chiave di lettura per capire Pechino attraverso il suo passato perché il suo passato semplicemente non è più lì, sopraffatto da varie rivoluzioni, una rivoluzione comunista, una rivoluzione culturale, e una rivoluzione capitalista. Quella che appare non è la Pechino del passato, ma la Cina che sta entrando nel XXI secolo. La Pechino del XXI secolo è un “mostro”, come dice Luca. Una città sterminata, piatta, inquinata e sovraffollata, senza alcun punto di riferimento visivo all’orizzonte, che assorbe persone ed energie dal resto del Paese e le trasporta dal passato alla modernità.

Pechino Vol.2 - Cercando una chiave



L’aereo è decollato da meno di un’ora dall’aeroporto di Pechino. Ore 15:09 a Pechino. Ore 4:09 a Toronto. 7200 miglia a destinazione. La rotazione terrestre mi sta per restituire quelle 13 ore di fuso orario che mi sono state rubate all’andata. Questa volta il tragitto sarà diverso. Da Pechino, l’aereo si dirigerà a nord-Est, attraversando l’angolo estremo ad oriente della Siberia, per poi attraversare l’Alaska, arrivare in territorio canadese, lo Yukon, scendere attraverso la Baia di Buffin, sorvolare Toronto, e infine New York. Sono passati 12 giorni dal mio arrivo a Pechino, e ho ritardato il più possibile il momento in cui avrei scritto questo blog. Non per mancanza di tempo. Ne’ per mancanza di voglia. E certamente non per mancanza di idee e stimoli. E’ come attraversare una vicolo della Pechino e ritrovarsi con i vestiti intrisi di odori. Si è sopraffatti, magari positivamente, molte volte nauseati, ma non è più possibile distinguerli e capire che odore ci portiamo addosso. Ho aspettato a scrivere questo post non per mancanza di sensazioni e esperienze da raccontare, ma perché avevo paura di non avere trovato la chiave di lettura per decifrare questa città e la mia esperienza.

sabato, novembre 08, 2008

Pechino Vol.1 - La Transiberiana da Toronto


Ore 2e34 AM a Waterloo. Notte fonda. Il che significa 2e34 PM a Pechino. Pomeriggio. Oppure 8e34 AM in Italia. Immagino che la nebbia che copre il passaggio tra la notte e il giorno in Emilia si stia cominciando a diradare. Ma il tempo conta poco visto che sto per entrare in una sorta di centrifuga temporale. E’ da poco finito il mio venerdì e fra venti minuti prenderò un autobus. Prima tappa l’aeroporto di Toronto. Da Toronto volo fino a New York. 4 ore di scalo cercando di non farmi arrestare dalle autorità americane in quanto italiano. Spero vivamente che le ultime dichiarazioni di Berlusconi non siano arrivate all’orecchio di quell’ufficiale di dogana di colore che mi accoglierà. Da New York volo fino a Pechino. 15 ore di volo più 12 ore di fuso orario. Ricapitolando: 17 ore di volo, 4 di scalo, e 3 tra trasporto in aeroporto e check-in. Totale: 24 ore + 12 di fuso orario. Di fatto sto per aprire la porta di casa mia mentre il mio venerdì è da poco finito, e aprirò una nuova porta di casa domenica nel tardo pomeriggio. Mi sento derubato del sabato. Non penso esistano strategie per sopravvivere uno sbalzo di fuso orario di 12 ore. La mia strategia sono 300 grammi di cioccolato fondente in valigia.



4805 miglia percorse. 2477 ancora da percorrere per arrivare alla destinazione. Ancora 5 ore di viaggio mentre faccio fatica a calcolare quanto sia passato dalla partenza.
E’ stata una notte lunghissima. Lunga quanto una notte polare. La rotta più breve che collega due punti situati su paralleli opposti del pianeta, non è una linea retta. Non è nemmeno disegnabile su una cartina geografica. Semplicemente perché la Terra non è una cartina geografica. Pensavo che il volo da New York a Pechino fosse una lunga linea. Prima la traversata degli Stati Uniti e poi l’Oceano Pacifico. Ma la terra non una cartina, e la rotta più breve passa dal circolo polare artico. Appena decollati da New York, l’aereo si è diretto a nord-est, prima sorvolando Montreal, attraversando il Quebec del Nord, poi virando verso la Groenlandia, fino al di sopra del circolo polare artico verso il polo nord. E’ stato quindi una notte irreale. Avevo lasciato New York a mezzogiorno ma da subito è stata notte fonda. Solo ora le luci cominciano a comparire. E sotto di me c’è la Siberia. E’ uno spettacolo meraviglioso. Distese di neve solcate da tantissimi fiumi che si attorcigliano come serpenti. Nessun segno o oggetto che possa far pensare che questo pianeta sia abituato da esseri umani.

giovedì, novembre 06, 2008

Diario della crisi, Parte 9 – Verso il G20

Il 15 novembre a Washington si terrà un vertice straordinario sulla crisi finanziaria. Parteciperanno i capi di stato o primi ministri dei paesi che compongono il G20, un G7 esteso ai maggiori paesi emergenti come Cina, India, e Brasile. E' un momento storico ed enormi aspettative sono state generate attorno a questo meeting. Mi è stato chiesto di scrivere un articolo sui temi che saranno al centro del meeting. E' un pezzo abbastanza breve e non tecnico, ma in inglese. Lo trovate a questo link:

mercoledì, ottobre 22, 2008

40 giorni di vita Canadase in 7 punti





Resoconto in sette punti degli ultimi 40 giorni di vita dal mio ritorno sul suolo canadese

Punto 1. La casa
Mi sono trasferito in una casa nuova. Bellissima. E’ una residenza storica risalente al fine ‘800. Secondo lo storico locale, nonché vicino di casa, questo era il primo ufficio postale nella cittadina. La divido con Jason, amico e compagno di dottorato. Un camino elettrico troneggia nel salotto. Con delusione ho scoperto che quella che brucia all’interno è semplicemente una lampadina che simula il fuoco. Sopra al camino elettrico, una finissima collezione di liquori collezionata con amore in un mese. Limoncino e Martini Bianco a dare un tocco di Italianità. Al loro fianco la foto di Miss Schwener, una diciottenne locale con le gote gonfie e una corona da Miss Italia. Schwener è un circolo o una pro-loco tedesca a Kitchener che ogni anni elegge la propria reginetta. Per partecipare alla selezione bisogna avere almeno 16 anni, non essere sposate, ed essere membri attivi del circolo. Per essere eletti al prestigioso titolo, le partecipanti devono dimostrare la loro conoscenza della storia del club. Una volta incoronata, Miss Schwener si accollerà il compito di rappresentare il club e la sua storia per un anno intero, sarà l’ambasciatrice delle radici tedesche nella comunità, e dovrà prendere parte anche alla competizione per l’elezione di Miss Kitchener-Waterloo.
Sono riuscito a rintracciare l’identità della Miss Schwener immortalata nella foto. La sua biografia rivela che è stata un membro del club sin da bambino, il suo bisnonno è stato uno dei fondatori del club, e dall’età di 15 anni lei balla con il corpo di ballo del club. Inoltre, l’anno scorso ha assunto la carica di direttrice dei costumi. Probabilmente si è accorta che non sarebbe mai riuscita a rientrare nelle dimensioni di una ballerina, e tra la dieta e le aspirazioni artistiche ha scelto un compromesso: la direttrice dei costumi. Durante le celebrazioni dell’Oktoberfest, alcuni amici non hanno resistito alla tentazione di staccare dal muro del locale la foto della reginetta del circolo, e uscire dal locale con la foto sotto il braccio, ammiccando ai buttafuori. Secondo alcune voci, Miss Schwener era stava in quel momento danzando nella sala da ballo, ignara che la sua effige veniva sottratta. Tecnicamente tutto ciò è un furto. Ma gli scrupoli morali per aver accettato il dono se ne vanno quando la osservo dominare il nostro salotto, che ora è chiaramente un protagonista del Novecento.
I padroni di casa sono una coppia di 70 anni. Ken e Barbara. Barbie e Ken. Ken è un preside di una scuola in pensione, ora in pensione. Passa i suoi giorni restaurando case o restaurando Cadillacs. Barbie è la pupa del bullo, cioè Ken. Nella batte l’arrosto di Barbie, come ho potuto accertare quando ci hanno invitato a cena.
Ho innalzato il mio stile di vita. Ho ordinato una moka elettrica su Ebay che mi è stata presto spedita da un commerciante in Florida. Ho anche un letto Ikea Aneboda. Un letto a una piazza e mezzo, perché in Canada i letti singoli non li hanno neanche i Visconti Dimezzati. Ho anche un comodino Ikea Aneboda. E una cassettiera Ikea Aneboda. E’ stato grande passo per me. Non avevo mai montato nessun pezzo Ikea nella mia vita. Ma è stato un grande passo per me anche in un altro senso. Fino a poco fa, tutti i miei averi stavano comodamente in una valigia. Come un clandestino pronto alla fuga. Ora ho un letto, il che mi rende un proprietario immobiliare, visto che il letto non si riesce a farlo stare in valigia neanche da smontato. Sento che mi manca l’aria.

Punto 2. Lo sport
Ho cominciato a fare un po’ di attività fisica. Prendo lezioni di nuoto. Due volte alla settimana. Attorno a me, i compagni e compagnie di corso sono più balene che delfini. In ogni caso mammiferi, ma non della mia misura. Questa sera, nel tentativo di fare una virata subacquea a fine vasca sono riuscito nell’impossibile obiettivo di rompermi il terzo dito del mio piede sinistro. Quello in mezzo, protetto da altre quattro dita. Per giunta in acqua. Ricordandomi della volta in cui mi sono rotto il dito più piccolo dello stesso piede, mi sono messo il cuore in pace, ho estratto un rotolo di nastro adesivo dai cassetti della cucina, e ho fatto un gesso fai da te.

Punto 3. Oktoberfest.
Questo fine settimana abbiamo celebrato la locale Oktoberfest. Qualsiasi guida turistica, alla voce “Waterloo” citerà con orgoglio che la città ospita la più grande Oktoberfest al mondo al di fuori dei confini tedeschi. La comunità di Waterloo-Kitchener era anticamente un insediamento di immigrati tedeschi. Il nome originario della città era Berlino, prontamente cambiato in Kitchener allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando Canada e Germania si trovarono su lati opposti delle trincee. Gli abitanti della Berlino Canadese prontamente rinunciarono alle loro origini tedesche e cambiarono il nome della città da Berlino a Kitchener. Ma non rinunciarono alla loro birra. Cosa è quindi un’Oktoberfest in Canada? Semplice. Prendete un palazzetto del ghiaccio. Ricoprite il ghiaccio con delle assi, visto che birra e ghiaccio non vanno d’accordo. Mettete dei chioschi che vendono birra a basso costo ovunque. Mettete in un angolo un’orchestrina che suona delle polke, per poi passare a Michael Jackson. Fate arrivare un corpo di ballo bavarese dalla Germania, e fategli fare una danza in cui con un accetta tagliano un tronco di pino a ritmo di musica. Date alla popolazione canadese una scusa per vestirsi con costumi bavaresi, calzettoni alle ginocchia, bratelle, cappelli con la biuma. Ora date loro una scusa per bere birra al ritmo della polka. L’imbarazzo per essere in tutto ciò si attuisce leggermente alla terza birra, ma non scompare mai del tutto.

Punto 4. La Fiera Mondiale di Rockton
E’ arrivata la giornata del Ringraziamento. In Canada il Ringraziamento si festeggia un mese prima che negli Stati Uniti. Le origini della celebrazione si mescolano alle antiche feste agresti per la raccolta, e siccome qui siamo più a nord, il raccolto avviene prima che nel resto del continente. Quest’anno sono stato trascinato alla Fiera Mondiale di Rockton (http://www.rocktonworldsfair.com/). Un’ora passata tra carote, ortaggi, galline, cavalli, pecore, capre, cetrioli, trattori. Ognuno portato dai contadini di tutto l’Ontario fino a questo angolo di paese vicino alle cascate del Niagara per competere per il prestigioso titolo. Le competizioni variano da quella per la gallina più colorata, al coniglio con il pelo più magnificente. Dalla zucca più storta al pollo più ruspante. La foto che vedete è quella della carota vincitrice del titolo per la “carota più orribile”
Punto 5. La Cina
Fra meno di un mese mi reco a Pechino a far visita ai tre pionieri bolognesi M., Gerry, e Luca che da due mesi sono in missione in Cina per capire cosa bisogna fare per riportare la bandiera rossa sul balcone di Palazzo d’Accursio a Bologna. Perché Pechino? Perché è una delle tre città che mi sono promesso di visitare nella vita (le altre Dubai e Gerusalemme). Perchè sono esattamente dodici fusi orari, l’altra parte del mondo. Perché il biglietto aereo costava quanto farsi incapsulare un dente, e io non sono un modello di igiene orale. Perché dopo aver fatto 14 ore di viaggio per trovare degli amici, voglio vedere se hanno il coraggio di dimenticarsi di farti gli auguri per il tuo compleanno. Perché ha fine anno avrò percorso più di 70mila chilometri negli ultimi 12 mesi.

Punto 6. Università e affini.
Ho ricevuto i risultati dei miei esami tre settimane dopo averli sostenuti. Risultato positivo. Come ha detto Jason, è stato come ricevere l’esito dei test per qualche malattia tropicale 3 settimane dopo essersi recati in clinica. Ora in teoria ho chiuso un periodo della mia vita iniziato alla tenera età di 6 anni fatto di lezioni ed esami. Tempo di cominciare a dedicarsi alla ricerca. La crisi finanziaria che sembra aver raggiunto l’apice in queste settimane ha dato tutto un altro significato e un’altra rilevanza ai miei progetti e allo studio che voglio condurre. Magari tornerò a parlarne fra un po’. Oggi l’ufficio immigrazione mi ha concesso un permesso di lavoro che mi permetterà di lavorare come assistente di ricerca per un’economista di Waterloo, o, in alternativa, in qualsiasi McDonald del territorio canadese. Ma soprattutto è tempo di passare dall’altra parte della cattedra. Mi è stato assegnato l’insegnamento di un corso che inizierà nel prossimo trimestre. Oltre ad insegnarlo, devo anche stilare il programma e decidere cosa insegnare, che esami far fare, come assegnare i voti, etc… Sono completamente inadeguato per il ruolo, ma ho comunque accettato. Essendo una classe per studenti del quarto anno, le persone a cui in teoria dovrò insegnare in verità avranno quasi la mia età, al massimo un anno in meno. Mi farò crescere quel poco di barba che popola il mio viso, e lascerò che la calvizia e l’accento italiano facciano il resto per aumentare la mia autorevolezza.

Punto 7. Questa mattina il termometro segnava -3 gradi. Bentornato generale inverno. Il primo giorno in cui il cielo di coprirà di nuvole e il vento gelido soffierà da Nord, odierò questo luogo con tutte le mie forze. Ma non stamattina. Stamattina il sole accendeva i colori ovunque, mentre l’aria gelata pungeva il volto lungo il mio tragitto in bici verso l’università, quasi obbligandolo a sorridere.

lunedì, ottobre 13, 2008

Diario della crisi, Parte 8 – Non più solo gli Stati Uniti

Fino a settembre 2007, questa crisi è rimasta una crisi “americana”, con delle ramificazioni pericolose nei bilanci di alcune banche europee che avevano investito nel mercato immobiliare americano. Dal mese di settembre 2007, la crisi è diventata una crisi transatlantica. Diversi paesi europei sono dovuti intervenire a soccorso di istituti bancari nazionali in difficoltà attraverso prestiti d’emergenza, nazionalizzazioni, e garanzie sui depositi.
Dall’inizio di ottobre 2008, questa si è trasformata da una crisi trans-atlantica, a una crisi globale. La valanga di vendite nei mercati azionari americani ed europei hanno trascinato al ribasso i mercati azionari di ogni continente. Dopo Londra, Parigi e Milano, anche Tokyo, Singapore, Sidney, Hong Kong, Bombay, e Mosca hanno registrato perdite spesso nell’ordine del 10% in un singolo giorno. In ottobre 2007, il Fondo Monetario ha ripristinato una procedura d’emergenza creata durante la crisi finanziaria asiatica del 1997-98 per soccorrere paesi in difficoltà. Il Fondo aveva negli ultimi anni quasi cessato la sua attività di concedere fondi di emergenza a paesi in difficoltà finanziaria, visto che la maggior parte dei paesi in via di sviluppo avevano beneficiato della stabilità nei mercati internazionali e gli alti prezzi delle materie. Questa situazione di calma sui mercati internazionali è chiaramente giunta a termine, e cresce la possibilità che paesi in America Latina, Europa orientale o Asia orientale debbano ricorrere a prestiti di emergenza per proteggersi da una crisi che non hanno minimamente contribuito a creare. I rischi sono minori per quei paesi in Asia orientale e Medio Oriente che nell’ultimo decennio hanno accumulato centinaia di miliardi di dollari in valuta e titoli esteri per difendersi da possibili attacchi speculativi provenienti dai mercati finanziari. Ma queste montagne di dollari potrebbero rivelarsi una barriera Maginot, incapace di prevenire che la crisi si faccia sentire attraverso canali diversi, come il calo nella domanda per loro esportazioni determinata dalla recessione negli Stati Uniti e in altri paesi.
Nel contesto di questa crisi, la Cina è sembrata fino a questo punto un attore periferico. Per vari anni il sistema bancario cinese è stato additato come uno degli anelli deboli, e il possibile punto di origine di una nuova crisi finanziaria internazionale. Contrariamente a queste previsioni, fino a questo momento i 1800 miliardi di dollari in riserve monetarie possedute dalla Banca centrale cinese e la relativa semplicità delle banche cinesi, non esposte ad attività ad alto rischio come quelle americane, hanno costituito una barriera protettiva sufficiente contro il diffondersi della crisi finanziaria.
Ma la crisi coinvolge il paese molto più profondamente, fino a mettere in discussione la sua posizione nel panorama internazionale. Esiste infatti un paradosso tra il bisogno assoluto di denaro per ricapitalizzare gli istituti finanziari negli Stati Uniti e in Europa, e i 4000 miliardi di dollari che giacciono come riserva nelle banche centrali nell’Asia Orientale. Per questo sono in molti a vedere la Cina, assieme ad altri paesi asiatici, come la potenziale soluzione della crisi.
La decisione da parte del governo di accumulare titoli del tesoro americano negli ultimi anni è stata definita da Ken Rogoff, in passato chief economist del Fondo Monetario Internazionale, come “il più grande programma di aiuti economici nella storia”. Altri economisti come Arvind Subramanian del Peterson Institute for International Economics hanno suggerito che la Cina dovrebbe fare un passo in più, investendo parte delle proprie riserve monetarie per ricapitalizzare Wall Street. Secondo Subramanian, tre sono le motivazioni. Primo, perché come vari commentatori sostengono all’interno degli Stati Uniti, la Cina ha indirettamente favorito l’emergere della bolla speculativa, attraverso la svalutazione competitiva della propria valuta, che ha inondato di liquidità i mercati americani. Secondo, perché attenuando l’entità della recessione negli Stati Uniti, la Cina preverrebbe un drammatico calo nella domanda delle sue esportazioni, e agirebbe quindi nel proprio interesse. Terzo, perché in questo modo dimostrerebbe al mondo intero il suo status di superpotenza responsabile, capace di usare le proprie risorse economiche per proteggere l’economia. In altre parole, sigillerebbe il passaggio dal “secolo americano” al “secolo cinese” arrivando in soccorso dell’attuale potenza egemone in difficoltà.
Proposte come queste sono più una provocazione intellettuale che una reale possibilità. Il primo ad opporre l’ingresso massiccio cinese o di qualsiasi altro paese nel sistema bancario americano sarebbe lo stesso Congresso americano. Inoltre, già una volta dall’inizio della crisi, il governo cinese è intervenuto in soccorso di Wall Street. A dicembre 2007, la China Investment Corporation - lo strumento usato dal governo cinese per investire sui mercati esteri 200 miliardi di dollari delle proprie riserve monetarie – ha acquistato una quota pari al 10% della banca americana Morgan Stanley. Il successivo aggravarsi della crisi ha causato un crollo nelle azioni della banca che hanno perso il 90% del loro valore e ha reso l’investimento fallimentare dal punto di vista economico. Questo ha alimentato il risentimento a Pechino, che da allora non è più venuta in soccorso d’istituti finanziari americani.
Ma quello che rende improbabile il soccorso cinese o di qualsiasi altro paese asiatico non sono solo considerazioni di natura puramente economica, ma anche la profonda crisi di legittimità in cui l’attuale turbolenza nei mercati finanziari ha gettato il capitalismo americano. Da tutto il mondo si levano dichiarazioni di frustrazione nei confronti degli Stati Uniti per avere gettato altri paesi in una crisi che non hanno contribuito ad originare. Il presidente brasiliano Lula ha dichiarato, “non è giusto che siano paesi in America Latina, Africa, e Asia a pagare per l’irresponsabilità del sistema finanziario americano”. Pochi giorni dopo Putin ha dichiarato, “questa crisi non è il frutto dell’irresponsabilità di specifici individui ma dell’irresponsabilità dell’intero sistema che rivendicava la leadership internazionale”. Ma aldilà della retorica, è chiaro che questa crisi segna un punto di svolta nella struttura della finanza internazionale. Negli ultimi 15 anni, accademici, esperti di finanza e politici hanno esaltato il modello anglo-americano nei mercati finanziari come il più dinamico, innovatore, e in grado di creare le basi per un’economia in grado di competere nel ventunesimo secolo. La risposta del G7 e delle maggiori organizzazioni finanziarie internazionali alle crisi finanziarie generate in paesi in via di sviluppo nello scorso decennio è stata quella di promuovere l’adozione in questi paesi di standard e codici finanziari in aeree diverse come la supervisione e regolamentazione bancaria, contabilità, governance aziendale. Nonostante questi standard siano state presentati dal G7 come “best practices”, agli occhi dei politici nei paesi dell’Asia orientale questi sono sembrati un’eccessiva interferenza nelle loro economie, e il tentativo di Washington di rimodellare i sistemi finanziari asiatici a propria immagine e somiglianza. A partire dalla crisi che ha colpito Tailandia, Indonesia, Malesia, e Corea del Sud nel 1997-98, la reazione prevalente nella regione a è stata quella di rafforzare la propria autonomia, attraverso l’accumulazione di montagne di dollari come protezione contro future turbolenze nei mercati finanziari, o rafforzando la cooperazione a livello regionale. La proposta giapponese di creare un “Fondo Monetario Asiatico” nel 1997 fallì per l’opposizione congiunta di Washington e Pechino. Mentre gli Stati Uniti temevano che questa organizzazione potesse rappresentare una sfida al Fondo Monetario Internazionale e diminuisse l’influenza americana nella regione, la Cina vide l’iniziativa come un tentativo di Tokyo di rafforzare la propria leadership. Ma dal fallimento del Fondo Monetario Asiatico, nuove iniziative hanno rilanciato la cooperazione regionale. La Chiang Mai Initiative rappresenta una serie di accordi tra le banche centrali dei paesi che formano l’Asean+3, i quali hanno creato delle linee di credito per supportarsi reciprocamente nel caso una crisi finanziaria colpisse la regione. La crisi attuale ha visto il rafforzamento di questa iniziativa, ora in grado di mobilitare 80 miliardi di dollari, e a differenza di un decennio fa, la Cina ne è ora un’attiva sostenitrice. La dichiarazione d’indipendenza da Washington in campo finanziario lanciata nella regione è destinata a prendere vigore nei prossimi anni, sull’onda lunga della crisi di credibilità in cui sono cadute le politiche di liberalizzazione promosse dagli Stati Uniti in Asia.
Sono in molti a chiedere che questa crisi rappresenti l’occasione per un nuovo inizio nel sistema finanziario internazionale attraverso una nuova Bretton Woods. La conferenza di Bretton Woods nel 1944 gettò le basi per la ricostruzione del sistema monetario e finanziario internazionale dopo la seconda guerra mondiale e portò alla creazione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca mondiale. Secondo molti commentatori, queste basi vanno ora riviste, e il nuovo ordine deve riconoscere lo spostamento di potere economico internazionale da Occidente a Oriente avvenuto negli ultimi decenni.
Ma le prospettive perché questo accada sono minime. Due condizioni favorirono il successo della conferenza di Bretton Woods nel 1944. La prima fu la leadership degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. La seconda fu una visione comune condivisa dalle elite dell’epoca attorno alle basi sulle quali la finanza internale sarebbe dovuta essere ricostruita. Entrambe queste condizioni mancano in questo momento. La perdita di credibilità del modello anglo-sassone nell’organizzazione dei mercati finanziari rende improbabile che le maggiori potenze economiche continuino a supportare questa visione. Al contrario, è più probabile che l’Europa, la Cina, e altre potenze regionali prendano posizione in favore delle loro tradizioni economiche e ne riaffermino i benefici. Secondo, gli Stati Uniti difficilmente avranno la credibilità e il prestigio morale per esercitare la loro leadership nel campo finanziario. Peer Steinbruck, ministro delle finanze tedesco, ha dichiarato, “quando guarderemo indietro a tutto questo fra 10 anni, vedremo il 2008 come un momento di cambiamento radicale. Quando cioè gli Stati Uniti perderanno il loro ruolo di superpotenza finanziaria”. Al contrario, Pechino potrebbe uscire dalla crisi in una posizione rafforzata. Olivier Blanchard, chief economist del Fondo Monetario Internazionale, ha dichiarato: "I Paesi emergenti cresceranno del 6 per cento l'anno prossimo e ciò avrà implicazioni politiche. Il 100 per cento della crescita nel 2009 viene da loro. Ci sarà uno spostamento nel potere, la Cina emergerà da questi eventi in una posizione più forte".
Mentre le condizioni per una nuova Bretton Woods sono deboli, quello che è più probabile emerga dalla crisi è un sistema frammentato, in cui diversi modelli regionali coesistono e si scontrano, e in cui difficilmente gli Stati Uniti saranno in grado di esercitare la stessa leadership intellettuale ed economica che hanno esercitato negli ultimi decenni. Un sistema in cui Washington non sarà in grado di guidare il resto del mondo, e in cui il resto del mondo sarà restio a seguire. Nonostante questo scenario sia visto in modo favorevole da molti critici di Washington, uno sguardo al passato rievoca il ricordo degli anni ’30 e della disintegrazione dell’economia mondiale in vari blocchi regionali in competizione che seguì il crollo di Wall Street nel 1929.

sabato, ottobre 04, 2008

Diario della crisi, Parte 7 – 228 contro 205

Lunedì 29 Settembre. 228 voti contrari. 205 favorevoli. Il Congresso degli Stati Uniti ha negato l’approvazione del piano presentato dal Tesoro americano e dal suo segretario Hank Paulson. Nonostante il supporto alla proposta da parte di Bush, Obama, McCain, la maggior parte dei deputati ha ben capito che votare si a un piano così impopolare avrebbe minato la loro possibilità di essere rieletti nelle elezioni che si terranno fra poco più di un mese. L’opposizione non è stata puramente strategica, ma anche ideologica. Gresham Barrett, deputato Repubblicano eletto in South Carolina ha dichiarato all’uscita dell’aula: “La mia paura è che oggi il governo cambierà per sempre l’aspetto del libero mercato negli Stati Uniti. Poiché credo profondamente nei principi del libero mercato, e credo nella libertà, mi opporrò a questa legge”. Tra deputati che hanno pensato alla loro rielezione, e deputati che realmente credono nella pericolosità di un’iniziativa del genere, gli Stati Uniti hanno deciso che “vale la pena rischiare una Depressione”, come ha criticato Martin Wolf. La scelta della parola non è casuale. E’ un chiaro riferimento alla Grande Depressione che fu innescata dal crollo di Wall Street nel 1929. Anche in quel caso, il tentativo di proteggere gli interessi economici nazionali portò all’approvazione dello Smooth-Hawley Tariff Act, all’innalzamento delle barriere doganali su ventimila prodotti, e alla diffusione della depressione in tutti i continenti. Non che il parallelo storico regga. Ma esiste chiaramente una tensione. Quello che gli Stati Uniti e il Congresso reputeranno essere la soluzione ottimale per i propri cittadini, non lo sarà necessariamente per il resto del mondo.
Fino a pochi giorni fa ero sinceramente contento della crisi finanziaria. A un seminario che ho contribuito ad organizzare questo fine settimana proprio sul tema della crisi finanziaria attuale, un professore si è rivolto agli altri partecipanti dicendo: “Noi siamo quelli che beneficiano di più da tutto ciò. Abbiamo di fronte un esperimento naturale”. La metafora funziona. A differenza di fisici, chimici, o biologi, chi si occupa di scienze sociali non può permettersi il lusso di ricreare in laboratorio esperimenti per testare le proprie ipotesi. A volte la realtà involontariamente crea le condizioni. Per me questo è uno di quegli esperimenti naturali. E a differenza di quel professore, io non ho risparmi che stanno venendo depredati in borsa, ne’ sono proprietario di una casa che sta perdendo valore. Ma se fino a ieri, la crisi era per me una grande opportunità, e una curiosità intellettuale, da oggi comincio ad essere più preoccupato.
Tre sono i possibili scenari che mi fanno preoccupare. La prima è che la spirale peggiori all’interno di Wall Street, passando dalle banche ad altre istituzioni finanziarie. Il punto centrale per capire la fragilità del sistema è il ruolo che l’indebitamento (leverage) gioca nel sistema bancario. Le banche normalmente accettano depositi dai propri clienti, e prestano quei soldi ad aziende e persone che richiedono un prestito. Queste attività rappresentano solo una parte marginale dei profitti che Wall Street registra. Negli ultimi due decenni Wall Street è passata dal “accettare depositi e prestare soldi” a concentrarsi su un’insieme di attività diverse, come investire e speculare sui mercati in cerca di profitti, comprare mutui fatti alle famiglie da piccole banche locali e re-impacchettarli in mortgage-backed Securities e collateralized-debt obligations, prestare soldi a fondi di investimento speculativi, finanziare fusioni tra aziende. Ora, per finanziare queste attività, le istituzioni finanziarie sono diventate altamente indebitate, in molti casi più di venti volte la loro base di capitale. L’indebitamento è centrale a come questi istituti operano. L’indebitamento è la cocaina dei mercati finanziari. In parte questo è comune a ogni banca. Anche la cassa di risparmio all’angolo di casa vostra è indebitata. Ma indebitata nei vostri confronti, o nei confronti dei propri clienti che depositavano i loro soldi. Wall Street è invece altamente indebitata nei confronti dei mercati finanziari, prendendo a prestito soldi per periodi brevi, spesso dovendo ripagare dopo un mese, in certi casi prendendo prestiti “overnight”, da ripagare il giorno dopo. La crisi del credito attuale ha minato proprio la capacità delle banche di ri-finanziare il proprio debito raccogliendo nuovi capitali sui mercati. Questi capitali non esistono più, togliendo ossigeno alle banche. Inoltre, una serie di istituti finanziari che quotidianamente prendono in prestito soldi dai mercati (tipo hedge funds) cominciano a soffrire della stessa mancanza di ossigeno. Man mano che la liquidità diventa merce rara sui mercati, diventa sempre più difficile che tutti questi istituti possano continuare ad operare.

Il secondo scenario che mi preoccupa è la possibilità che la crisi si espanda fino a causare la caduta di istituti finanziari in Europa. Da ieri mattina, questa non è una possibilità, ma una realtà. In Inghilterra, il governo ha nazionalizzato una banca chiamata Bradford & Bingley. In Germania, la banca centrale salvato un'altra banca chiamata Hypo Real Estate attraverso un prestito d’emergenza. Belgio, Olanda e Lussemburgo hanno unito le forze per salvare Fortis. In tutta Europa, le banche maggiori hanno registrato significanti perdite in borsa, concentrate non a sorpresa in quegli istituti finanziari che fanno maggiore affidamento giorno per giorno sui mercati finanziari per raccogliere il credito che permette loro di andare avanti.
L’Unione Europea, Francia e Germania hanno abbandonato la posizione distaccata e passiva tenuta per più di un anno, e hanno cominciato ad alzare la voce. Ma è un ruggito destinato ad impressionare più il proprio elettorato che ad influenzare veramente gli Stati Uniti. L’Unione Europea ha sottolineato come si trovi vittima di una crisi che non ha contribuito ad originale, visto che l’origine della crisi è totalmente interna agli Stati Uniti. Un portavoce della Commissione ha dichiarato che “la Commissione si aspetta che le autorità statunitensi vadano avanti presto con le decisioni che erano state prese e si assumano così le loro responsabilità”. Peer Steinbruck, ministro delle finanze tedesco, ha rilasciato una dichiarazione che ha fatto molto clamore, quando ha detto: “quando guarderemo indietro a tutto questo fra 10 anni, vedremo il 2008 come un momento di cambiamento radicale. Quando cioè gli Stati Uniti perderanno il loro ruolo di superpotenza finanziaria”. Negli ultimi 15 anni, accademici, esperti di finanza e politici hanno esaltato il modello anglo-americano nei mercati finanziari come più dinamico, innovatore, e maggiormente in grado di creare le basi per un’economia in grado di competere nel ventunesimo secolo. In molti sono ora già passati a tessere le lodi del “modello europeo” dei mercati finanziari. Ma dietro le dichiarazioni che vengono da Bruxelles vi è un palazzo che scricchiola in quanto non è mai stato finito di costruire. L’integrazione monetaria e la creazione dell’Euro ha portato la maggior parte dei membri dell’Unione Europea a delegare la responsabilità sul controllo della propria moneta a un organismo sovranazionale. Ma nessuna soluzione simile è emersa per contenere crisi finanziarie. La Banca Centrale Europea non ha alcun potere di salvare una banca europea sull’orlo del fallimento, come può invece fare la Federal Reserve americana. Non esistono normative o istituzioni che permettano di gestire queste situazioni d’emergenza. Molti in Europa guardono alle loro banche indebolite dalla crisi e si chiedono cosa succederebbe se una di queste cadesse.
Nel caso una banca europea che opera in più paesi entrasse in difficoltà, ogni risposta d’emergenza dovrebbe essere coordinata al momento tra governi nazionali. Il problema è che certe banche in Europa hanno raggiunto una dimensione tale da offuscare le risorse a disposizione degli stati in cui hanno sede. Le dimensioni di Fortis oscurano la ricchezza prodotta in un anno dal Belgio intero. La stessa cosa vale per molte banche islandesi e svizzere. HSBC è un gigante di tali dimensioni da oscurare la ricchezza prodotta ogni anno dal paese in cui a siede: la Gran Bretagna.
La diplomazia in Europa si comincia a muovere per prevenire l’impensabile. L’Olanda e Francia hanno proposto la creazione di un fondo di 300 miliardi di euro da usare nel caso una grande banca europea entrasse in difficoltà. La proposta è stata affossata dall’opposizione della Germania. Nel frattempo il governo irlandese ha unilateralmente offerto una garanzia totale su tutti i depositi in banche irlandesi, provocando una fuga di capitali dalle banche inglesi che non godono di questa protezione totale da parte del governo. Questi due eventi mostrano un paio di paradossi. Primo, coordinare una risposta tra 27 membri dell’UE potrebbe essere troppo difficile e lento per fronteggiare un’emergenza. Allo stesso tempo gli stati europei non possono permettersi di agire unilateralmente in quanto questo costituirebbe una minaccia alle regole base del mercato unico. Neelie Kroes, commissario europeo alla concorrenza, ha commentato avanzando un parallelo con gli anni ’30. “Quando l’Europa si trovò di fronte a una crisi bancaria negli anni ’30, i governi decisero di agire autonomamente, di ritirarsi dai mercati europei, e di chiudersi dietro i loro confini. … Il Protezionismo non era la soluzione in quel momento. Non facciamo lo stesso errore una seconda volta”.
MA questo mostra un secondo paradosso. Agire in modo preventivo per evitare il collasso di un gruppo bancario è politicamente difficile perché nessuno può permettersi di firmare un assegno di varie centinaia di miliardi in modo “preventivo”. Farlo dopo il collasso della banca è inutile. I limiti della politica impongono che ogni soluzione sarà disegnata al momento, quando il terreno sta per franando, e nessuna direttiva europea o legge nazionale è così importante da non poter essere sacrificata.

Il terzo aspetto della crisi che mi lascia preoccupato è il fatto che ormai i suoi effetti sull’economia reale sono una certezza. General Electrics è stata per decenni considerata una garanzia, ma pochi giorni fa ha dovuto finanziarsi, cercando nei mercati finanziari quindici miliardi di dollari in modo da allontanare lo scetticismo sul suo stato di salute finanziaria. Il credito scarseggia, e la mancanza di ossigeno comincia arrivare anche alle aziende. Molti indicatori economici mostrano che l’economia americana e quella europea hanno rallentato.
Nel frattempo, io me ne sto al sicuro, protetto da 4000 km di confine canadese. Durante la Depressione degli anni ’30, negli Stati Uniti fallirono 11.000 banche. In Canada, il numerò fu zero.


Venerdì 3 Ottobre. La camera dei deputati americana ha approvato il decreto che autorizza l'utilizzo di 700 miliardi di soldi dei cittadini per comprare titoli tossici dai libri contabili delle banche. Nel frattempo il testo di 3 pagine si è gonfiato fino a 400 pagine. I 700 miliardi sono diventati 850, data l'aggiunta di sgravi fiscali e nuove spese. Tra i vari articoli aggiunti per ottenere il supporto dei vari senatori e deputati riluttanti vi è l'introduzione di sgravi fiscali per le ditte che producono freccie giocattolo per bambini e un cambio nella normativa sulle assicurazioni sanitarie nel caso delle malattie mentali. Non penso sia una coincidenza. E nonostate il piano sia passato, le possibilità che abbia successo mi sembrano ora estremamente ridotte.

giovedì, settembre 25, 2008

Diario della crisi, Parte 6 – E adesso?

A cosa serve questo “assegno”? i 700 miliardi di dollari sono destinati a un fondo pubblico che dovrebbe comprare dalle banche tutti i “toxic asset”, gli strumenti finanziari che hanno avvelenato i loro bilanci. La prima funzione della decisione del governo di compare questi titoli è quella di rimuovere questo cancro che sta uccidendo il sistema bancario americano. La seconda funzione è di fare in modo che le banche ricomincino a fare circolare il credito invece di ammassare quel poco che hanno. La speranza è che una volta i bilanci sono stati ripuliti, la fiducia nel mercato bancario possa essere ripristinata, e le banche possano riprendere a prestare soldi normalmente. In altre parole, ripulendo il virus l’occlusione che blocca le vene dovrebbe essere sciolta e il sangue potrebbe scorrere normalmente. La terza funzione è quella di "creare" un prezzo per questi titoli tossici. In un'economia di mercato il prezzo viene definito dall'incontro tra la domanda (chi vuole comprare quel bene) e l'offerta (chi vuole vendere quel bene). Ma in questi mesi la domanda di mortgage-backed securities è scomparta, ed è diventato difficilissimo, quasi impossibile, capire quanto questi titoli valgano in realtà. Il prezzo dei mortgage-backed security ora è così basso a causa del panico dei mercati da essere irrealistico. In teoria, il governo potrebbe perfino guadagnare da questo intervento, quanto meno tra qualche anno.Fra qualche anno, quando il declino dei prezzi delle case finirà, il prezzo di quei titoli salirà a livelli più realistici. Il problema è che le banche attualmente sono troppo fragili e non possono permettersi di tenere questi titoli nei loro bilanci per qualche anno, non possono tenere il veleno per così lungo in corpo. Il governo invece forse aspettare che la fiducia torni nei mercati, e vendere questi strumenti finanziari a un prezzo più alto in futuro.
Ma le probabilità che il piano funzioni non sono chiare. Che strumenti finanziari verranno comprati? E soprattutto: a che prezzo? Se il prezzo è troppo basso, le banche non vorranno disfarsi di questi toxic assets. Se il prezzo è troppo alto, ci sarebbe una reazione del paese, che vedrebbe il tutto come un esempio di “socialismo per le banche”. In queste ore il Congresso Americano sta discutendo se dare il via libera a questo piano. La crisi non potrebbe arrivare a un momento peggiore. Fra due mesi ci saranno le elezioni, e oltre al presidente, si voterà anche per rieleggere quasi metà dei parlamentari. Non facile per un senatore dell’Ohio spiegare ai propri elettori (che in molti casi pensano che i loro posti di lavori sono rubati dalla Cina) che una somma di tale entità del bilancio dello stato viene usata per salvare il sistema finanziario piuttosto che per sussidi di disoccupazione, assicurazione sanitaria o finanziare una istruzione migliore. Per questo Bush è intervenuto stasera. Per dire alla nazione: è un’emergenza! Bisogna fare qualcosa ora. Per dare un capro espiatorio ai Congressmen, e favorire l’approvazione del piano.
Quello che è sicuro è che la crisi ha già cambiato per sempre tre aspetti del sistema finanziario americano. Il primo è la fisionomia di Wall Street. Delle 5 investment bank (banche che non accettano depositi) che esistevano un anno fa, due sono fallite, una è stata assorbita, e due si sono tramutate in banche centrali. L’epoca dei livelli astronomici di indebitamento del sistema bancario è finita per un periodo che potrebbe essere molto lungo.
La seconda cosa che è cambiata è il rapporto tra Wall Street e la politica. Gli ultimi 2 decenni sono stati anni di deregolamentazione dei mercati finanziari, in cui un parte sempre più rilevante dei mercati si è sviluppata al di fuori del business tradizionale delle banche, cioè prestare denaro. Una logica inevitabile nella regolamentazione dei mercati afferma che non appena le tasse dei cittadini sono usate per salvare degli istituti finanziari, in quel momento cominciano a moltiplicarsi le voci in favore della creazione di misure più stringenti. La stessa cosa succederà adesso. Il rapporto tra la politica e i mercati procede come un pendolo. La fiducia nella capacità del mercato di autoregolamentarsi è stato un fondamento delle politiche degli ultimi anni, che descrivevano l’intervento statale come un’interferenza controproducente. Non è la prima volta. Prima della crisi del 1929 l’intervento dei governi nella regolamentazione dei mercati finanziari era minimo. Ma le crisi finanziarie mostrano come le fondamenta di ogni mercato siano “politiche” e nessun mercato può funzionare senza le adeguate istituzioni e scelte politiche. Visto che la politica è dovuta entrare in soccorso della finanza fino a un punto che non si era visto dagli anni ’30 solleva il dubbio che – come è successo dopo il 1929 – il pendolo potrebbe tornare indietro verso un maggiore controllo da parte di agenzie governative sui mercati.
Il terzo aspetto del sistema finanziario americano ad essere cambiato è il suo rapporto con il resto del mondo. La crisi è stata fino ad’ora una crisi “americana”, non globale. Molte banche europee non sono messe molto meglio che le banche americane, ma sicuramente la situazione in Europa non è d’emergenza come dall’altra parte dell’Atlantico. Una grande sorpresa di questi mesi è stato quanto poco paesi al di fuori degli Stati Uniti e Europa abbiano risentito della crisi. Si dice che quando gli Stati Uniti starnutiscono, il resto del mondo prenda il raffreddore. Non è stato vero nel caso dei mercati finanziari in paesi come la Cina, che secondo il pensiero di molti fino ad un anno fa rappresentava il punto in cui una nuova crisi sarebbe potuta scoppiare dopo quella Asiatica del 1997-98. Non sto escludendo che questi paesi non ne risentiranno, specialmente una volta che l’economia americana rallenterà e comincerà a comprare meno prodotti cinesi e dal resto del mondo. Ma sicuramente quello che ne ha risentito è la reputazione del capitalismo americano a Pechino, a Rio de Janeiro, a Seoul, a Bangkok.

Diario della crisi, Parte 5 – Quando il sangue smette di scorrere nelle vene



Il fallimento dei due fondi di investimento di Bearn Stearns ha aperto gli occhi su quello che stava succedendo nel mercato immobiliare e nel mercato delle mortgage-backed Securities. Immediatamente, la liquidità in questi mercati è scomparsa, il che vuol dire che nessuno era più disposto a comprare questi titoli, il cui valore è ulteriormente crollata. La maggior parte era nelle mani dei maggiori istituti finanziari americani, che negli ultimi anni si erano buttati a capofitto in questo mercato in cerca di guadagni più alti e sottovalutando nettamente il rischio. Enormi buchi sono comparsi nei bilanci delle maggiori banche al mondo, che da settembre 2007 hanno cominciato ad annunciare perdite inaspettate. Inoltre, questi buchi continuano ad allargarsi, visto che il prezzo delle case continua a scendere (punta della piramide), causando così un crollo continuo nel prezzo di questi titoli (base della piramide)
La fiducia è una risorsa fondamentale nei mercati finanziari. Ma all’improvviso da settembre 2007 questa è diventata un bene prezioso. Banche sono diventate restie a prestarsi soldi tra di loro non sapendo bene quale fosse la reale situazione dei loro bilanci. Questo ha portato molte banche sull’orlo del baratro. Le maggiori banche internazionali sono altamente indebitate. Questo è normale per una banca. Ma mentre la vostra Cassa di Risparmio si indebita nei confronti del propri risparmiatori, accettando i loro depositi, le banche d’affari non hanno sportelli e raccolgono il capitale di cui hanno bisogno per finanziare le proprie operazioni dai mercati finanziari. Negli ultimi anni, le banche hanno aumentato la quantità di denaro preso in prestito in modo da poter incrementare le loro operazioni, e i loro profitti. Mentre nel 1980, l’indebitamento del settore finanziario americano era pari al 21% del prodotto interno lordo americano, nel 2007 questa percentuale era quasi 6 volte più grande (116%). Ma all’improvviso il sangue ha smesso di scorrere perché le banche non si fidano a prestare i propri soldi in un periodo in cui i propri bilanci sono colpiti da perdite generate dai loro investimenti in mortgage-backed Securities, in cui non avevano alcuna certezza dello stato di salute degli altri istituti finanziari a cui avrebbero dovuto prestare i soldi. La crisi generata nel mercato immobiliare si è trasformata in un “credit crunch”, una “stretta del credito”. Molte banche si sono trovate in estremo bisogno di credito. Sono arrivati in soccorso come cavalieri bianchi alcuni “sovereign wealth fund”, fondi di investimento controllati da governi asiatici e mediorientali. Fondi controllati dai governi di Abu Dhabi, Singapore, e cinese hanno investito miliardi di dollari nelle banche americane. Ma i loro investimenti si sono rivelati fallimentari, visto che le azioni delle banche in cui avevano investito continuavano a crollare.
Le banche centrali di tutto il mondo hanno provato a porre dei rimedi, iniettando liquidità, cioè denaro, nei mercati. Trasfusioni di sangue per riportare la normalità nel sistema venoso prima che il sangue cominciasse a scarseggiare anche agli organi, l’economia reale, le aziende, le persone che devono chiedere un prestito. Le trasfusioni sono continuate per un anno. Evitando che il sistema venoso ormai intasato dalle tossine e dalla mancanza di fiducia collassasse. Ma una trasfusione non è un antibiotico, e non può ripulire il corpo dalle tossine.
A gennaio il primo grande scossone alla faccia di Wall Street. Bearn Stearns una delle 5 “investment bank” (banca d’affari) americane è stata salvata sull’orlo del fallimento dalla Federal Reserve, che ha favorito la sua acquisizione da parte di un’altra banca (JP Morgan). Dopo il salvataggio di Bearn Stearns molti hanno tirato un sospiro di sollievo, e io mi sono fatto convincere da quelli che dicevano che il peggio era passato. Perché il peggio doveva essere alle spalle? Perché il governo americano (in verità la Banca centrale) si era impegnata a usare denaro pubblico per salvare una banca in difficoltà. Era un segnale che non ci sarebbe stata una nuova crisi del 1929, quando il governo di Hoover e la Federal Reserve non erano corse in soccorso del sistema bancario che stava crollando.
Ma ci eravamo sbagliati. La crisi di fiducia è peggiorata con il peggiorare dei buchi nel bilancio delle banche. Fino a Settembre 2008, quando tutto è diventato irreale. Prima il governo americano ha dovuto nazionalizzare Freddie Mac e Fannie Mae. I nomi fanno ridere, ma non sono altro che acronimi dati a due istituti finanziari semi-pubblici che fornivano un’assicurazione o compravano mutui originati dalle banche americane. Sotto il peso del crollo del valore dei mutui che avevano assicurato, Freddie e Fannie sono arrivati sull’orlo del tracollo, prima di essere de facto nazionalizzati dal governo americano. Una nazionalizzazione di dimensioni epocali, visto che il loro valore raggiunge i cinquemila miliardi di dollari. Tutta la ricchezza prodotta in Italia in 5 anni. Cosa ha spinto il governo americano a questo passo? Freddie e Fannie non potevano essere fatti fallire. In parte perché, assicurando la maggior parte dei mutui americani, rendevano più agile alle famiglie indebitate il pagamento della rata. Ma un altro motivo sta nel fatto che il maggiore creditore di Freddie e Fannie è il governo cinese, che negli anni ha usato parte delle riserve valutarie della propria banca centrale per comprare titoli che considerava sicuri come l’oro, o come l’oro del XX secolo, cioè i titoli del tesoro americano. Un fallimento di Freddie e Fannie avrebbe provocato perdite ingenti per il governo cinese e altri paesi est-asiatici, e la reazione sarebbe potuta essere drammatica per il sistema finanziario.
Pochi giorni dopo Freddie e Fannie, è stato il turno di Lehman Brothers, una tra le maggiori banche americane. Fondata nel 1850, aveva superato una guerra civile, due guerre mondiali, la grande depressione, il Lunedì Nero del 1989, ma non questa crisi. A differenza di Bearn Stearns, il Tesoro americano non è intervenuto in soccorso di Lehman, in parte per lanciare un chiaro messaggio: non useremo i soldi dei cittadini per salvare banche che sono in difficoltà a causa dei propri errori.
Ma nel XXI secolo spesso questa scelta è un lusso che non ci si può permettere. Gli ultimi decenni hanno visto la nascita di banche e istituti finanziari che sono “too big to fail”, visto che la loro caduta avrebbe ripercussioni su altri istituti finanziari. Il fallimento di Lehman, pochi mesi dopo Bearn Stearns ha provocato il panico nei mercati. Investitori si sono cominciati a chiedere: chi sarà il prossimo a non farcela? Le puntate sono andate su un’altra banca storica, Merril Lynch, che è stata salvata tramite una fusione con Bank of America. Il giorno dopo il Tesoro è dovuto intervenire in soccorso di AIG, il più grande colosso assicurativo al mondo, sborsando 80 miliardi di dollari. Morgan Stanley e Goldman Sachs, le uniche due banche d’affari sopravvissute alla crisi, hanno deciso di trasformarsi in banche commerciali (cioè di accettare depositi), in modo da poter accedere a fondi di emergenza da parte della Federal REserve.
E per provare a mettere la parola fine su una discesa che sembra non avere fondo, il Tesoro americano ha deciso di fare un regalo a Wall Street: un assegno da 700 miliardi di dollari.

Diario della crisi, Parte 4 – Una piramide capovolta

La prima volta che ho letto su un giornale l’espressione “mortgage-backed Securities” non avevo la minima idea di cosa questa espressione volesse dire. Ancora ora non ho ben chiaro come tradurre l’espressione in Italiano.
La descrizione più chiara che ho trovato su internet li definisce “Titoli di credito garantiti da un pool di prestiti ipotecari di tipo residenziale o commerciale. Essi derivano da un processo di securitization che trasforma i mutui ipotecari in titoli scambiabili sul mercato”. Oppure, “Titoli emessi a fronte di un’operazione di cartolarizzazione il cui cash flow è garantito dal rimborso di mutui commerciali o residenziali”. Non chiara abbastanza? Ne hoMi stupirei dei contrario.
Nella maggior parte delle banche italiane, quando una famiglia si reca a chiedere un mutuo, la banca analizza le possibilità che questa famiglia ha di ripagare il capitale prestato e accede ai propri depositi per concedere il prestito. Gli interessi che mensilmente vengono pagati sono il prezzo che la banca riceve per aver impegnato il proprio denaro in quel mutuo e per essersi assunto il rischio che la famiglia ha cui prestato i soldi non sia in grado di ripagare. Il sistema creditizio americano si è invece sviluppato secondo un modello diverso (che ha fatto capolino in Europa solo negli ultimi 10 anni). Quando l’istituto creditizio concede un mutuo, questo non rimane nei suoi libri contabili. La “promessa di ripagare”, e il flusso di denaro che questa genera mensilmente, non viene tenuto dalla banca che ha conceduto il mutuo ma viene venduto. A chi? Ai mercati finanziari, altre banche, piccoli risparmiatori, chiunque. Vengono create delle obbligazioni o titoli azionari, i quali vengono quotidianamente scambiati nei mercati finanziari, il cui valore deriva dal futuro pagamento delle rate del mutuo. Comprando quella obbligazione ci si assicura una parte dei soldi che la famiglia avrebbe dovuto restituire alla banca.
Questo processo viene chiamato “securitization”. Nella lingua italiana, “cartolarizzazione” (qualcuno si ricorda di quanto Tremonti propose di cartolizzare il debito dello stato italiano?). Inoltre, le “mortgage-backed Securities” venivano divise in piccole parti e mescolate con titoli del tesoro o altre obbligazioni, e impacchettate in nuovi strumenti finanziari chiamati “collateralized debt obligations” (CDOs).
Allo stesso tempo, molti istituti finanziari cominciarono a vendere “credit default swap” (CDS). Questi erano “derivati finanziari” che assicuravano contro le possibili perdite che derivassero dal default di un mutuo o prestito. Nel 2001 il valore nominale di questa famiglia di titoli era mille miliardi di dollari (1 trillion). A metà del 2007, il mercato aveva raggiunto i 45 trillioni (migliaia di miliardi) di dollari.
Per capire il legame tra questi strumenti finanziari e l’economia reale, pensate a una piramide capovolta, che si regge sulla propria punta. La punta è il mercato immobiliare. Lo strato superiore, più ampio, è il mercato finanziario costituito da una miriade di strumenti finanziari il cui valore dipende da quello del mercato immobiliare (la metafora viene da un libro molto bello, “The Trillion Dollar Meltdown” di Morris). In cima alla piramide ci stanno i credit default swap, che sono appunti strumenti finanziari il cui valore non deriva dal valore di qualcosa di reale come una casa, ma bensì dal valore di altri titoli finanziari (i mortgage-backed Securities, appunto).
Questa piramide ha avuto per anni effetti positivi. Il processo di “securitization” è stato difeso e lodato per i suoi effetti benefici. Se una banca si assume interamente il rischio che il proprio cliente non sia in grado di ripagare, questa subirebbe una perdita notevole nel caso le cose girino nel verso storto. Ma se quel rischio viene diviso in piccole parti e diffuso su tanti investitori, il rischio diventa più piccolo. Dividendo i mutui i vari pezzi e vendendo questi pezzi sui mercati, il rischio che una famiglia non potesse ripagare il proprio mutuo diventava veniva disperso. La presenza di assicurazioni nei confronti di un eventuale default (credit default swaps) disperdeva ulteriormente il rischio. Così disperso da essere irrilevante. Questo meccanismo permette che ci siano più persone disposte ad investire in questi titoli, più capitale disponibile per finanziare mutui, mutui più convenienti, più persone che possano comprare una casa. Gli effetti positivi di questo sistema sono stati notevoli.
Ma cosa succede se un numero alto di famiglie smette di pagare il proprio mutuo perché il valore della propria casa è crollata? Cosa succede se la punta della piramide rovesciata oscilla? In quel caso, la base della piramide subirà oscillazioni ancora più ampie. E così è successo. Quando la bolla nel mercato immobiliare è scoppiata, le obbligazioni che derivavano il loro valore dal mercato immobiliare sono diventati carta straccia (questi titoli azionari non rappresentavano altro che la promessa di pagamento di una serie di mutui divisa tra tanti investitori che si assumevano il rischio, con il valore dell’immobile come collaterale). Il problema è che a questo punto, questi strumenti finanziari erano ovunque. Nelle mani delle maggiori banche. Nelle mani di investitori. Nelle mani di fondi pensioni. Nelle mani della Banca Centrale Cinese. Come è si è arrivati a ciò? I mutui subprime – mutui privi di garanzie, dati a persone che non potevano permettersi di ripagare - erano stati spezzettati e mescolati assieme a titoli più sicuri, creando “credit default obligations”. Dopo di che erano intervenute le “credit rating agencies” come Moody e Standards & Poors. Il compito di queste agenzie è valutare la solidità di una compagnia o di uno stato, e dare un giudizio sulla possibilità che questi ripaghino il proprio debito (immagino tutti abbiano sentito nei telegiornali una frase del tipo: “Oggi Moody’s ha rivisto il proprio il giudizio sul rating del debito pubblico italiano”). Lo stesso tipo di giudizio è stato dato nei confronti dei titoli garantiti dal rimborso dei mutui. E la maggior parte delle volte il risultato era un timbro Tripla-A, il massimo livello di sicurezza per un titolo azionario. Titoli che in verità erano tossici (visto il rischio che le famiglie non potessero ripagare i loro mutui-facili) venivano assemblati insieme a titoli più sicuri, e assegnato un timbro di garanzia AAA. Questo ha permesso che titoli “tossici” si disperdessero nei mercati finanziari, venendo comprati da istituto finanziari che non capivano o sottostimavano la loro rischiosità. Questa situazione era aggravata da un problema di incentivi. Le persone che originavano questi mutui venivano pagati in base al numero di mutui elargiti, non in base alla probabilità che questi venissero effettivamente ripagati. Il fatto che chi creava il mutuo lo avrebbe poi rivenduto ai mercati finanziari invece di assumersi il rischio, portava a chiudere un occhio sul tipo di persone a cui veniva rilasciati i prestiti. Tanto, in caso le cose fossero andate male, il costo sarebbe stato pagato da qualcun altro.
Il rischio che doveva essere disperso era ora ovunque, come una tossina che entra in circolo nelle vene. Il rischio che doveva essere spezzettato dal processo di cartolarizzazione, non era diminuito ma solo nascosto, così che le persone che detenevano questi titoli non erano arrivati a capire esattamente quale fosse la base di ciò che avevano nel proprio conto titoli.
Finchè a fine luglio 2007, due fondi di investimento gestiti dalla banca americana Bearn Stearns, e che avevano investito abbondantemente in MBS, dichiarano bancarotta. Da lì la strada è tutta in discesa, e non è ancora chiaro dove sia il fondo.