lunedì, luglio 07, 2008

Fragole tra Nonantola e Fidenza

Ore 11 di sera. Seduto al tavolo con di fronte un piatto di fragole. Dall’altra parte del tavolo, Massimo (non sono così sicuro del nome, io ai nomi non ci faccio caso per fino al terzo incontro). Massimo è il coinquilino modenese, piovuto dal cielo in modo completamente inaspettato qualche giorno fa.
Sente dalla sua camera il rumore di posate, e capisce che non posso che essere io. La dieta dei restanti coinquilini non implica ne piatti ne posate. Cominciamo a parlare, mentre le fragole vengono fatte sparire dai movimenti quasi furtivi delle sue mani.
Età forse 28-30 anni. La barba incolta ma non troppo, la chitarra che ho intravisto nella sua camera, e la maglietta gialla sbiadita ne fanno un perfetto rappresentate della categoria “giovane emiliano, istruito ma un po’ sognatore, abbonato al Manifesto dal 1998”. Conferma che effettivamente è abbonato al Manifesto. Non ho indagato da quanto tempo.
E’ un ricercatore. Forse un biologo. Dopo essersi laureato all’università di Bologna, e dopo aver frequentato l’università italiana sufficientemente a lungo per vedere tutte le sue ambizioni e voglia di rimanervi calpestate una a una, è tornato a Barcellona dove aveva fatto l’Erasmus (galeotto fu l’Erasmus) e ora prosegue il suo dottorato in Catalogna. Si trova accidentalmente in questo angolo di Canada dimenticato dagli dei della meterologia per una collaborazione con un professore canadese.
Ci dividono alcuni anni di vita, ma i pochi chilometri che dividono il parmense dal modenese si sentono subito. I punti di incontro tra le nostre esperienze fanno in modo che la conversazione venga subito dirottata sul tema del “ritorno in Italia”.
Presento la mia versione, ormai collaudata in innumerevoli sedute sull’argomento. Così collaudata che ormai ne sono pienamente convinto e quasi me ne compiaccio. Pensare al tornare in Italia, e porsi il problema è sbagliato e controproducente. Il pensiero non deve nemmeno sfiorarti. Perché? Perché comunque il ritorno rimane non solo una opzione che non è possibile chiudersi, ma una calamita che ci attira. L’Italia rimane il luogo degli affetti, e dell’identità. Rimane il nido. Gli spiego che per questo bisogna non prendere in considerazione la possibilità del ritorno, perché comunque quella è la possibilità più semplice e che ci sarà sempre. Meglio pensare alla nuova meta, o passo in avanti, perché quella possibilità va costruita. Procedo con il secondo punto del mio collaudato discorso alla nazione. Il ritorno è impossibile fino a che non si è immuni. Immuni dalla stanchezza e senso di immobilismo che caratterizza il vivere “politico” in Italia. Il paese dagli orizzonti ristretti, dove l’ambizione suona sempre un po’ ridicola, e non viene particolarmente valorizzata. Gli dico quindi che il ritorno è possibile, ma solo una volta in cui la personalità è stata immersa a sufficienza in un ambiente diverso come quello canadese, da non essere più a rischio di essere assorbita dal paese degli orizzonti ristretti.
Lui mi chiede, quanti anni hai? Gli anni che ci separano sono forse meno significanti della distanza tra il parmense e il modenese, ma sufficienti per aprire una crepa nel mio ragionamento. Quali sono le tue priorità? L’età ti porterà a cambiare le tue priorità, a cercare un altro tipo di felicità che non dipende dal lavoro o dal cammino di crescita personale. A cercare identità e continuità. A quel punto il nido diventa molto più accogliente di quanto possa sembrare a 23 anni. Ma tra il bisogno di riconoscere e riconoscersi negli altri, lui stesso riconosce come il suo discorso stia diventando sentimentale. Il nido, la calamita. Calamita e calamità. Gli chiedo dove vorrebbe crescere e dare un’identità ai propri figli? Ci pensa, ma non risponde. Mi dice che tornando al nido saprebbe cosa e come insegnargli, visto che è dallo stesso nido che ha preso poi il volo.
Bisogno di riconoscersi negli altri che non riesce a soddisfare a Barcellona, dove vive. I catalani non conoscono l’ironia. Una volta superata la barriera linguistica rimangono altre barriere. E i canadesi? Mi dice che gli sembrano semplici, privi della nostra … intervengo io a completare il discorso. Privi della nostra presunzione. Sicuramente privi della mia presunzione. Scelgo questa espressione con attenzione, ben sapendo che “presunzione” non ha necessariamente un connotato negativo. Presunzione non è che il rovescio della medaglia della complessità, raffinatezza di gusti e di idee, gusto, di cui mi fregio ogni giorno con i miei amici e colleghi, quando li descrivo come dei sempliciotti. La presunzione deriva da secoli di storia sulle spalle che respiriamo attraverso un’educazione che ci porta prima di tutto a riconoscere il passato piuttosto che a immaginare il futuro. Provo a dargli quindi una chiave di lettura per capire i canadesi (e i nordamericani in generale). Non riuscirai mai a fare pace con la loro semplicità, mancanza di raffinatezza intellettuale e gusto estetico. Con il loro essere diretti e mai retorici, quasi monodimensionali. Con la mancanza di fascino e capacità di intrigare o stupire. Perché è questo essere “banali” che fa in modo che l’occhio con cui ti guardano e l’orecchio con cui ti ascoltano sono molto più sinceri e genuino. Nessuna presunzione, ne bisogno di giudicare ancora prima che l’interlocutore abbia iniziato a parlare. Apertura vera all’altro. L’opposto di quello che sono e di quello di cui mi vanto di essere, cioè una persona arrogante. Di quelle che finiscono normalmente ad insegnare, piuttosto che ad imparare. Ma è nel percepire questo contrasto che sento il limite di questa attitudine. Fuori dal nido si vive sulla pelle come dal contrasto derivi la possibilità di crescere. Ma ritorna in mente il punto che lui ha presentato prima e che non so scalfire. La felicità di cui parlava è riconoscersi tra gli altri. Quella che descrivevo io invece è cercare di camminare e crescere attraverso gli altri. Inevitabilmente a un certo punto la seconda cede il passo alla prima. Cede il passo al nido.
Nel frattempo le fragole sono scomparse dal piatto che ci divide. Mi saluta, tempo di dormire, per lui. Per me, tempo di scrivere.

1 Comments:

Anonymous Anonimo said...

"L’opposto di quello che sono e di quello di cui mi vanto di essere, cioè una persona arrogante".

Sottoscrivo.

Bellissimo post che condivido a pieno, anche se non ho (ancora) fatto tutte quelle esperienze che tu chiami fuoriuscita dal nido.

Non vedo l'ora di chiacchierare un po' insieme davanti ad una bottiglia di Malvasia (e, obviously, ad un paio di scodelle!)

M.

9:52 PM  

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