martedì, ottobre 09, 2007

Washington





Sono le 18e30, e il sole sta scendendo all’orizzonte nelle grosse vetrate di fianco a me che danno sulla pista di decollo. Sto scrivendo seduto su una poltroncina nera, una tra le centinaia che ordinatamente in fila popolano il terminal. L’aeroporto è quello di Detroit, ma potrebbe essere una qualsiasi altra città. Sono appena atterrato da Washington DC, e fra un paio di ore un mini turbo-elica mi riporterà in Canada. La cosa surreale è che sono uno tra le poche persone al mondo ad aver volato dall’Aeroporto di Waterloo, un capannone nel mezzo del nulla, con un solo volo al giorno: Detroit, appunto. Molto comodo per chi come me abita a meno di venti chilometri.
E’ Detroit, ma potrebbe essere una qualsiasi altra città americana. Questo aeroporto rappresenta l’impressione che ho avuto della mia prima visita sul territorio statunitense più di ogni altra cosa. Come è iniziato questo mini-viaggio di 3 giorni? Con molto sospetto. Non mio nei confronti degli Stati Uniti. Degli Stati Uniti nei miei confronti. Dico questo perché entrare nel paese dall’estero mette una certa tensione. Non che sia difficile: basta un passaporto. Essendo italiano, non è richiesto nemmeno il visto. Ma la quantità di forse dell’ordine armate che ti accolgono alla dogana e il modo in cui le armi sono ostentate mi ha colpito. Non ho visto nessun doganiere armato quando sono entrato in Canada. Prima ho dovuto rilasciare le impronte digitali dell’indice, mano destra e sinistra. Poi, foto sorridente in una webcam. Poi i soliti moduli in cui come al solito dichiaravo di non aver avuto alcun ruolo negli stermini nazisti tra il 1933 e il 1945, arriva il breve colloquio con un ufficiale. Da dove vieni? Cosa fai? Come ti guadagni da vivere? Dove stai andando? Per quanto tempo? Cosa vai a fare? “incontrare un’amica”. Cosa fa lei per vivere? Dove vi siete conosciuti? Di che nazionalità è? Qui subentra il panico. In quanto, lei è venezuelana, ma al momento solo il governo iraniano ha rapporti peggiori con Washington. In verità, anche il governo siriano è decisamente ostile. E purtroppo questa è la sua seconda nazionalità. Alla fine, mi lasciano entrare nel paese. Sorprendente il fatto che il paese è facile da affrontare una volta entrati, tanto quanto l’ingresso è ostile. Probabilmente questa è ancora l’ombra lunga dell’11 Settembre.
All’uscita del terminal, una gigantesca bandiera a stelle e striscie mi accoglie. Mi reco presso un bancomat per ritirare alcuni dollari americani. Ho letto, studiato, citato il dollaro americano per migliaia di volte e questa è la prima volta che me lo trovo in mano. Come è? Delundente. Pallido, di colori tenui pastello. Niente a confronto della bellezza dell’Euro. E i giocatori di hokey disegnati sui dollari canadesi che popolano il mio portafoglio (popolano è probabilmente una definizione eccessiva) fanno decisamente una figura migliore.
I tre giorni sono stati molto belli, forse i migliori dal mio arrivo in Nord America, perché sono stati uno di quei rari momenti in cui mi capita di non pensare allo studio o a progettare le cose da fare. Questa volta la testa era solo sul presente. O quasi.
Washington è una città relativamente piccola. Vi è una concentrazione immensa di potere in un piccolissimo pezzo di terra: Casa Bianca, Camera e Senato, Ministeri vari, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale. Ma vi è un’assenza di vita assoluta (e in vari di quegli edifici vi è probabilmente anche un’assenza di vita intellettuale assoluta). I parlamentari, i diplomatici, i funzionari, i lobbisti abitano in sobborghi che si dipanano su altri tre stati, Virginia, Delaware, Maryland. Quasi addormentarsi sul curatissimo prato di fronte al Campidoglio (parlamento) è stato il momento migliore, se non fosse per due guardi che camminavano ostentando un fucile d’assalto. I loro dito indice non è si è mai allontanato dal grilletto.
Alcune considerazioni in ordine sparso. Primo, il clima. Vi erano 32 gradi. Il tassista che mi ha portato a casa dall'aeroporto di Waterloo, mi ha detto che era appena stato a prendere il sole sul lago Erie (uno dei Grandi Laghi): 30 gradi, ma con l'umidità se ne percepivano 38. Ricordo che siamo all’8 di ottobre, e a Fidenza domani è S.Donnino. Cioè tempo di castagne arrosto, non di ghiaccioli. Al mio ritorno in Canada mi attende un ben più freddo 28 gradi. Secondo, paradossalmente questo è stato il punto più a Sud in cui sia mai stato in vita mia. Terzo, in generale mi è piaciuta. Probabilmente in America ci vivrei (non ovunque, e non per sempre). attraversare il terminal di un qualsiasi aeroporto e leggere negli schermi nomi come "Nashville" fa venire foglia di andare a vedere se Elvis è ancora vivo, nonostante a me di Elvis non ne freghi nulla. Sicuramente riprenderò a viaggiare negli US nei prossimi mesi. Questa volta a New York, e questa volta in autobus.
Un momento che mi ha colpito particolarmente è stato quando siamo arrivati al memoriale dei caduti della seconda guerra mondiale. Si trova di fronte a quell’immenso lago artificiale che compare spesso nelle foto delle manifestazioni contro la guerra del Vietnam, o dove Martin Luther King teneva i suoi discorsi. Uno spiazzo semplice, costellato di bandiere americane, stelle rappresentanti i caduti, e frasi pronunciate durante la guerra da presidenti e generali, su come la bandiera americana sarebbe stata per sempre ricordata come simbolo di libertà, o parole simili. Nulla di diverso da quello che troviamo nei memoriali della prima guerra mondiale in Europa. Ma quello che mi ha impressionato è come questa retorica sia ancora viva. Leggere frasi sulla bandiera a stella e striscie e il suo ruolo nel portare la libertà del mondo lascia in qualche modo turbati. Perché questo non è un giornale, qui quella retorica si tocca con le mani. E perché quella retorica sta, nel bene e nel male, influenzando il mondo in cui viviamo.
Più che la città, questa era comunque l’occasione di rivedere un’amica, compagna di studi, e persona importantissima che avevo lasciato a Londra a giugno. Per parlare del suo lavoro, dell’Africa da cui è appena tornata, per fare molto sano amarcord sui tempi di Londra. Poche cose sono belle come prendere un aereo, stare in coda ore, rimandare lavori che normalmente consideri priorità assoluti, per vedere una persona cara. E poche cose lasciano l’amaro in bocca come il doverla salutare all’aeroporto. La storia si ripete. E non ci sono molti modi per lavare quel sapore amaro in bocca.
Domani riprendo la mia vita quotidiana. Sveglia presto, bicicletta, cornetto e caffè annacquato al bar della biblioteca, lezione, studio... quello di cui ho bisogno, ma quello che stasera mi lascia con troppi pensieri.

1 Comments:

Blogger nick_dabomber said...

l'ufficiale aeroportuale mi avrebbe messo sicuramente in crisi con tutte quelle domande.

"come ti guadagni da vivere?"
"ehm, qualche lavoretto, studio ancora"
"alla tua età? Vergogna! Chi vai a trovare?"
"una ragazza"
"una ragazza? il tempo per andare a figa ce l'hai eh? ma di lavorare non se ne parla vero?debosciato!"
"da dove vieni?"
"italia"
"ah italia, scusa non sapevo, mi dispiace,ehm...entra pure"

11:40 PM  

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