martedì, settembre 05, 2006

Le prime 100 notti di governo

Diciamo che il cambio di governo un risultato l’ha avuto: si dorme un po’ meglio. Neanche le zanzare sono più così numerose. Ci si sveglia alla mattina e non si deve scoprire che è in atto uno scontro diplomatico con la Cina perché il tuo presidente del Consiglio ha ricordato le loro abitudini culinarie con i bambini (bolliti naturalmente), o che il tuo governo, per alleviare i problemi di bilancio, sta preparando un nuovo condono che cancellerà anche i peccati veniali e mortali, garantendo il Paradiso per tutti, o quantomeno un Purgatorio un po’ più breve.
Finiti i fuochi d’artificio del quinquennio Berlusconiano siamo ripiombati in un atmosfera un po’ più grigia e soporifera, una foschia di sapore vetero-democristiano. E non è poi così male cullarsi un questo porto delle nebbie. Ci si sente quasi in un paese normale. Forse potrò vergognarmi un po’ meno delle mie origini quando sarò all’estero (Are you Italian? Ah! Berlusconi!).
Siccome però ho, nel mio piccolo, contribuito ad eleggere un governo non solo perché ponesse fine a 5 anni di umiliazione della vita politica e pubblica e dell’immagine dell’Italia, ma anche e soprattutto perché provasse a modernizzare l’economia, rinnovare l’università, dare una nuova spinta etica alla vita pubblica, e trasformasse il paese in un corpo capace di affrontare i problemi di XXI° secolo e non solo di difendere i privilegi acquisiti nel XX°, per questo mi chiedo: cosa è stato fatto fino ad ora, nei fatidici “100 giorni”?.
I primi 100 giorni dovrebbero essere il periodo di massimo slancio di un governo, dove, grazie all’entusiasmo della vittoria delle elezioni, si lancia nell’attuare i punti caratterizzanti del proprio programma e della propria visione del paese. Tecnicamente, una luna di miele. Come ha constatato il ministro-cabarettista Rutelli (“siamo una coalizione strana: non c’è stato tempo per la luna di miele”) in Italia di luna di miele non ce n’è stata molta, forse perché Berlusconi continuava a gridare che voleva il riconteggio dei punti di tutti i campionati di calcio dilettanti, forse perché c’erano i Mondiali, forse solo perché c’era caldo.
Nonostante l’assenza di luna di miele qualcosa si è mosso, anche se non alla velocità con cui mi ero ingenuamente illuso. E se adesso in fondo respiro meglio alla mattina, e non sono più spaventato all’idea di leggere il titolo di Repubblica, lo devo a due cose:
1) Bersani. E non solo perché è emiliano DOC (anzi, di più, piacentino. Piccola digressione: a volte mi chiedo se per risolvere i problemi in Italia non basti dare tutto in mano a politici emiliani, ma poi mi ricordo di Prodi e Giovanardi, e il mio patriottismo scema subito). Il decreto sulla liberalizzazione di taxi, vendita di farmaci e le modifiche agli ordini professionali non avranno un effetto dirompente ma sono state un segnale forte. Uno scossone che ha fatto cadere molta polvere dagli scaffali. La volontà di dare un colpo a privilegi acquisiti e corporazioni, che costituiscono un peso inutile per lo sviluppo del Paese. Certo, come ha scritto Panebianco, la sinistra ha fatto quello che poteva fare: cioè andare a colpire categorie sociali che votano a destra e quindi estranee al proprio bacino elettorale. L’anomalia è quindi che il governo precedente non sia riuscito a fare lo stesso con la spesa pubblica e la pubblica amministrazione, che sono incredibilmente aumentate negli ultimi 5 anni. La divisione dei compiti funziona così: ognuno metta ordine nel bacino elettorale del campo avversario (sperando nell’alternanza elettorale). E per questo ho poche fragilissime speranze che Prodi possa ridurre e razionalizzare la pubblica amministrazione.
Comunque confesso che quando ho letto la notizia del decreto Bersani mi sono inorgoglito, e per due giorni ho girato con un sorriso leggermente da ebete di sinistra.
2) Seconda nota molto positiva: D’Alema e la politica estera. Bisogna ammettere che la crisi in Libano e le condizioni dell’intervento era ideali per l’Italia: vi era un mandato dell’ONU chiaro e condiviso; era una missione di peace-keeping e non peace-enforcing nel cortile di casa; soprattutto il mandato non prevede di disarmare Hezbollah; e infine dovevamo rifarci un po’ un’immagine di credibilità presso Nato e comunità internazionale dopo l’annunciato ritiro dall’Iraq e i dubbi sull’Afghanistan (forse se anche una di queste condizioni fosse mancata non sarebbe potuta partire la missione). Ma questo non toglie che il governo, e D’Alema in prima persona, si sono comportati con serietà, assumendosi iniziativa e responsabilità, aprendo all’Europa, non lasciandosi sfuggire l’occasione di provare a costruire una politica estera che fosse rivolta all’Europa e non fatta di pacche sulle spalle ai margini dei meeting internazionali.
Però a parte questo non è successo molto altro. Anzi devo dire che “esteticamente” questi giorni sono stati bruttini. A cominciare dall’assalto alla diligenza nella formazione del governo e dei suoi 100 ministri, vice-ministri e sottosegretari. Continuando con l’indulto, su cui ho vari dubbi.
La cartina di tornasole con cui vorrei capire se posso ancora riporre un minimo di speranza nelle possibilità del governo di migliorare le sorti italiane è la finanziaria (da votare entro il 29 settembre). Il copione finora è stato questo: da un lato del palco il ministro dell’Economia TPS (scusate, ma è troppo lungo da scrivere intero) annuncia rigore e determinazione del risanare i conti in modo da rassicurare Bruxelles e mercati finanziari, dall’altro esponenti DS (da me votati) appoggiano questa linea, ma temono di farlo in modo troppo determinato e perdere consenso in parte dell’elettorato, dall’altro la sinistra radicale afferma che la finanziaria non deve toccare in alcun modo i ceti deboli. A questo punto il risultato sarà o un compromesso al ribasso o una caduta del governo. E nessuno dei due mi esalta.
Il compromesso sarà al ribasso perché è ingenuo pensare che si possano mettere sotto controllo la spesa pubblica e il debito pubblico (il che vuol dire, dare all’economia italiana una prospettiva di competere nei prossimi anni, e di fronte alla maggiore interdipendenza e competizione internazionale), senza modificare l’esistente.
Penso che non ci sia più spazio per una politica economica di sinistra. Come nemmeno per una politica economica di destra. Mi spiego meglio. Ogni cambiamento (termine neutro), riforma (termine positivo) o taglio (termine negativo) della spesa pubblica può essere definita di sinistra, o di destra, in quanto va a toccare principalmente valori e interessi di soggetti che elettoralmente si riconoscono a sinistra o a destra. Ma le battaglie per tutelare questi interessi, come quelle fatte dai sindacati in questi giorni, sono battaglie di retroguardia. Così come sono battaglie di retroguardia quelle dei taxisti, o dei farmacisti il mese scorso.
Penso che le riforme economiche devono guardare invece a un altro asse. Non destra-sinistra, ma presente-futuro. Vorrei che la politica (e soprattutto la classe politica) potesse guardare oltre i tempi che passano tra un’elezione e l’altra, e sapesse fare scelte che non si limitino a difendere gli interessi del proprio elettorato (cioè una finanziaria di sinistra, come chiede la sinistra radicale), ma che fosse in grado di salvaguardare questi interessi anche nel futuro.
Parlare di risanamento dei conti, e di riduzione del debito pubblico non significa sacrificare gli interessi dei ceti deboli in favore delle richieste dei mercati internazionali o dei “Cernobbio boys”. Il debito pubblico non è altro che la decisione da parte di uno stato di vivere al di sopra delle proprie possibilità, spendendo più di quanto le proprie entrate permettano, e riversando la responsabilità di pagare questa differenza sulle generazioni successive. Diminuire il debito pubblico significa quindi anche permettere al Paese e al sistema produttivo di poter affrontare le questioni che la globalizzazione e la maggiore competitività internazionale stanno ponendo e porranno in maniera sempre più forte. Discorso simile vale per le pensioni. L’idea di allungare l’età minima di pensionamento a 62 o 60 anni viene vista come un tradimento dei lavoratori, che dopo una vita di sacrificio vedono allentare il momento del pensionamento. Ma nessuno si è accorto che siamo il paese con la più alta età media al mondo, e che avere 60 anni nel 2006 non è la stessa cosa che avere 60 anni nel 1950, visto che le aspettative di vita si sono allungate di almeno 10 anni nel frattempo? Sul Corriere del 4/9/06 G.A. Stella citava uno studio secondo il quale “chi va oggi in pensione a 58 anni con 35 di contributi, può aspettarsi di vivere mediamente, con l' allungarsi della speranza di vita, altri 25 anni abbondanti. Solo in parte coperti dai versamenti che ha fatto nei decenni di lavoro. Bene: dopo aver incassato quanto aveva accantonato, se è un impiegato pubblico verrà mantenuto dalla collettività per altri 10 anni, se è un dipendente privato per altri 8, se è un artigiano o un commerciante (solo cinque anni e mezzo per riavere quanto versato) per altri 20, quasi. E si tratta di calcoli riferiti a sei anni fa. Da ritoccare al rialzo”. Bastano questi dati per mostrare che la situazione esistente non può essere procrastinata all’infinito.
Se nella finanziaria non si avrà il coraggio di toccare le pensioni, non vuol dire che si avrà fatto una politica di sinistra, in quanto si sono difesi i diritti dei lavoratori. Vorrà dire che stiamo guardando solo al presente e non al futuro. Come salire su uno sgabello per non bagnarsi, mentre il livello dell’acqua sale.

P.S. Se rileggo quanto scritto, direi che potrebbero benissimo sembrare parole scritta da un “giovane azzurro paladino del Berlusconismo”. O quantomeno che non abbia votato DS. In verità questa contraddizione non mi interessa più di tanto. Perché penso che oggi, nella realtà italiana e specialmente dei partiti italiani, la sinistra italiana riesca a dire ben poco nei temi che riguardano la sostenibilità del sistema-Paese nel futuro e le prospettive per il benessere delle generazioni future (la mia per prima). E allo stesso modo la destra. Le politiche capaci di aprire prospettive nuove sono impraticabili se sono giudicate solo attraverso i canoni con cui dividiamo cosa è “destra” e cosa è “sinistra”. Quella divisione ci dice ben poco su come affrontare il futuro.
Destra e sinistra sono la stessa cosa? Ammesso che quando sento qualche persona che dice “tanto sono tutti uguali”, non riesco ad essere particolarmente convincente nel mostrare che “non è tutto uguale” che vale la pena andare a votare, penso che la differenza vada oggi cercata in altri campi. In quello dei valori. Dei diritti civili. Del rapporto tra pubblico e privato. Dell’etica nella vita pubblica. Attenzione: Zapatero in Spagna ha mostrato che può esistere una politica di sinistra capace di modernizzare e cambiare una società. Ma non vi è stata nessuna rivoluzione nella politica economica.
Nel campo dei valori, dell’identità e del rapporto tra l’individuo e la società, penso sia più importante che mai scontrarsi, dividersi e riconoscersi in destra e sinistra. Ma ci sono problemi nei quali questa distinzione ha ben poco da dire. O quanto meno andrebbe ridefinita, come ogni generazione ha fatto. Se il termine “sinistra” vuole rimandare a concetti come “tutela dei più deboli” e “giustizia sociale”, deve fare in modo che questi concetti siano applicabili anche in futuro, ed adattarli alle nuove regole con cui si sta muovendo il mondo. Non vorrei che “sinistra” diventasse sinonimo di difesa del presente, senza preoccuparsi del futuro. Vorrei che "destra" e "sinistra" rappresentassero due diverse visioni di come costruire un futuro sostenibile, e non due giustificazioni per conservare il presente, come se nel frattempo attorno a noi fosse rimasto cristallizzato agli anni Sessanta.

P.P.S. Scusate sono stato veramente troppo lungo. Forse è meglio che ora vada a letto.

1 Comments:

Anonymous Anonimo said...

"ma cos'è la destra cos'è la sinistra?" lo canticchiava ironico giorgio gaber ma sotto sotto è una domanda che ci si fa un pò tutti perche sono due categorie che non incarnano più valori e realtà poi così diverse.
non sarà un pensiero di sinistra quello che hai condiviso con noi ma è vero: ora le parole chiave sono passato e futuro, tornare indietro o andare avanti.
certo bisogna vedere come costruire il futuro e in cosa consista esattamente l' andare avanti ma è certo che il passato ora come ora non può fungere da esempio,per lo meno in italia.
ho pochissima fiducia,pochissime speranze ma sono felice di essere andata a votare anche se avrei preferito apporre la croce con spocchia e sicurezza che le cose sareebbero andate meglio da quel momento in poi.
bersani e massimino non mi hanno delusa ma credo che l' italia abbia bisogno di un colpo deciso di spugna su anni (per non dire decenni) di mal governo.
forse un pò tutto avrebbe bisogno di un colpo di spugna.
la visiane generale delle cose.
se tu parli come un seguace di berlusconi io rischio di sembrare una specie di nazista...
ma continuo a vederla grigia.

9:46 AM  

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